giovedì 22 novembre 2007

Un arcobaleno su Jakarta




Ci sono almeno sei diversi corpi di polizia ad aspettare l'attracco della Rainbow Warrior. Fanno sfoggio di divise, mostrine e ghette di colori e fogge diverse. E osservano.
Ma nesuna nave compare all'orizzonte. Per il semplice fatto che l'orizzonte non esiste. Il cielo sopra Jakarta e' un'unica e compatta massa grigiastra, a volte dalle tonalita' giallognole. E non potrebbe essere diverso, un cielo condannato a sonnecchiare sopra quindici milioni di abitanti, con i loro rifiuti bruciati in mezzo alla strada, con i loro otto milioni di veicoli che ogni giorno sbuffano e tossiscono folate nere.
Cosi', senza orizzonte, la Rainbow Warrior semplicemente emerge dalle foschia umida, si manifesta dal nulla, come un arcobaleno. E come un arcobaleno, e' una promessa. La nave arriva dal porto di Dumai, in Sumatra, dove ha bloccato per giorni un carico di olio di palma destinato all'Europa. Nelle settimane precedenti, a poca distanza, gli attivisti nel Forest Defender Camp, hanno conforntato direttamente l'espansione delle piantagioni di palma da olio, costruendo dighe dove le compagnie distruggono la foresta e drenano il terreno. E ora e' qui, nella capitale, che deve essere chiusa la partita, con una legge che vieti una volta per tutte la distruzione delle foreste umide e delle torbiere. Per proteggere il clima globale dal rilascio di carbonio causato dall'erosione della torba, e per proteggere le foreste dalla completa distruzione.
Come un arcobaleno dopo settimane di tempesta. Era ora.

venerdì 16 novembre 2007

Caccia all'orso



Sembra Emiliano Zapata. Grande e grosso, non parla mai e gli enormi baffi gli conferiscono un'espressione severa. Ma il sorriso e' dolce come quello di una scolaretta. Se ne sta seduto tutto il tempo, a guardare oltre l'orizzonte, il sarong blu notte avvolto attorno ai fianchi come su un antico guerriero giavanese, o drappeggiato sulle spalle con dignita' senatoriale.
Ci ha guardato in silenzio mentre indicavamo stupiti coppie di buceri o aquile di passaggio. Ci ha guardato in silenzio mentre discutevamo la specie di un gruppo di scimmie. Disapprova? Gli e' indifferente? Difficile dedurlo da quel silenzio, da quella nobile immobilita'.
Ma oggi si e' mosso, Emiliano Zapata.. Non si e' solo mosso. Mi ha afferrato per le spalle e trascinato via come un fuscello. Ha perfino parlato, spiegandomi nonsocche' con concitazione. Ma non ha mollato la presa.
E' uno che inspira fiducia, Emiliano Zapata, forse per il suo silenzio ostinato. Lo seguo docile lungo il sentiero, poi attraverso campi recentemente aperti. Un albero ancora brucia dalle radici, aspettando lo schianto che lo butti giu'. E io continuo a seguirlo, inciampando sulle radici, camminando sopra tronchi abbattuti. Lo seguo nella foresta, dove un albero abbattuto giace in un letto di segatura. Lo segui e non capisco dove, non capisco cosa succede. Ogni tanto giro lo sguardo verso il suo corpo massiccio, e lui mi risponde con uno sguardo di conferma e rassicurazione. Non mi resta che seguirlo. E o seguo attraverso gli sterpi le liane sempre piu' fitte, lo seguo mentre la foresta si fa nera come la notte.
Ed e' li, nel nero, che un'ombra nera si muove dondolando. Solo allora capisco cosa sta succedendo. E' un orso, si agita preso in una trappola di cacciatori. Finito per sbaglio nella trappola destinata a qualcun altro. Furioso e spaventato, affonda le zanne nell'albero cui è legata la corda che lo lega. E il tronco e'ora un unico ammasso di trucioli sparsi.



Sotto la gola la falce bianca che rende riconoscibile la sua specie, e' un orso malese, o sun bear. Del resto non c'e' una gran possibilita' di errore: e' l'unico orso che vive in Indonesia. Ma e' rarissimo. L'IUCN l'ha appena inserito nella lista rossa delle specie minacciate, denunciando un declino della popolazione del trenta per cento in trenta anni.
Trenta per cento in trenta anni. Che percentuale rappresenta la massa di pelo nero che si agita di fornte a me? Dal buio delle fronde appare un'altra figura, una specie di fauno, con un trenta per cento di maglietta sulle spalle, e un venti per cento di pantaloni alla cintola. Il resto sono muscoli scuri, tatuaggi e stringhe.
Improvvisamente il gap linguistico diventa un dramma. I due ora si aggirano attorno all'orso con minacciosa cautela. Studiano l'animale a debita distanza, tagliano rami lunghi e drtitti. Vorrei spiegare loro quanto e' raro questo animale, quanto e' prezioso. Cerco di spiegarmi a gesti, ma come spiegare a gesti che una specie animale e' in via di estinzione? E so che per loro e' un animale feroce, un pericolo per le famiglie e i bambini. Immagino le storie raccontate la sera, di fronte al fuoco, di orsi feroci e terribili, delle astuzie per mettersi in salvo dal terribile predatore. Cosi' terribile che e' praticamente vegetariano. Ma come spiegarmi? E' uno scontro antico, ancestrale, tra l'Uomo e la Bestia, fatto di paure reciproche, che non consoce ragioni.
La povera bestia agita le zampe. I lunghi artigli lasciano file di solchi nella corteccia degli alberi circostanti.
Ma io cosa ci faccio qui, tra i cacciatori? Sono la persona sbagliata nel posto sbagliato. E nel momento sbagliato. L'orso latra come un cane al laccio. Attorno a lui e' un campo di battaglia di rami spezzati, fronde affastellate. Le parole vagano senza meta, senza effetto. Sono parole inutili, morte. Il terrore accomuna preda e cacciatori.
E' sera ormai. Altre ombre si sono materializzate tra le fronde sempre piu' scure. E' la gente delle baracche della zona. Sono venuti tutti per la caccia all'orso.
Ormai siamo alla fase finale. Con lunghi bastoni immobilizzano l'animale, con mosse precise, caute, evitando i fendenti artigliati dell'orso. Rapidamente strisce di corteccia catturano le zampe, le immobilizzano, fissandole ai bastoni. Dura un attimo, e l'animale e' legato attorno al bastone. Le parole continuano a uscire mute dalla mia bocca. L'orso continua a latrare disperato.
Finalmente trovo qualcuno in grado di tradurre qualche spezzone di frase. Mi rassicura: nessuno mangia orsi qui, ne' si uccide senza ragione. Ma l'orso minaccia le famiglie, i bambini, e torna sempre nel posto del primo incontro. Quindi lo porteranno lontano, oltre il fiume, dove non sara' piu' una minaccia.
Vorrei sentirmi rassicurato, ma i guaiti dell'animale non me lo consentono. Continuo ad essere nel posto sbagliato. Ma chi di noi e' nel posto giusto? L'orso? I volti spaventati della gente che mi circonda? No, non e' il posto giusto per nessuno, qui.



La zanzariera oscilla lievemente. La pioggia cade ticchetando sul tetto di foglie, come una solerte dattilografa. L'aria è calda e oleosa. Travi e bambù creano un intarsio di poligono a righe orizzontali e verticali, come una intarsio giavanese. Attraverso i veli, fuori dalla finestrella gli alberi come ombre nere oscillano al vento contro un cielo sempre più scuro.
Il mondo sembra muoversi con leggerezza, come navigando sul pelo di onde leggere. O forse e' la febbre che ricordi e delirio in un'unica trama. Poi i brividi lasciano spazio a un sonno pesante e senza colori. Rincantucciato nel fondo del sacco a pelo, ritrovo finalmente il posto giusto.

giovedì 15 novembre 2007

Notte in citta'


Dopo una giornata di cammino nel fango, finalmente posso mettermi a letto. Ma quando sistemo il sacco a pelo gia' disteso sul materasso, ci trovo sotto un nido di bigattini. Forse e' rimasto qualche avanzo di cibo da qualche parte, forse dovrei lavare tutto. In effetti c'e' un fetore eccessivo nella stanza. Guardo ai vestiti messi a stendere, zuppi di fango e sudore. Cerco di lavarre alla meno peggio qualche camicia, rimuovo i bigattini, scopo accuratamente per terra, ne trovo altri sotto le assi del pavimento. Alla fine ho pulito tutto, e mi metto a dormire stremato.

Fra me e me penso di essere una persona un po' troppo suggestionabile. Sto ancora dormendo, accoccolato sul sacco a pelo, la mano sotto il cuscino, e mi ripeto di non lasciarmi impressionare, di continuare a dormire. Ma la sensazione di avere la mano piena di vermi continua a restare. E' solo una sensazione. E' un sentire-non sentire, un impercettibile movimento. E' solo un'impressione. Ma troppi concetti non aiutano il sonno, e alla fine mi sveglio. Guardo la mia mano ed e' in effetti piena di vermi. Ce n'e' una bella popolazione annidata sotto il cuscino. Mi domando da dove siano venuti, spero non dalle mie orecchie. Alla mente mi tornano vecchi film dell'orrore, con flussi di vermi che escono dal naso e dalla bocca. Basta sciocchezze, la cosa piu' ovvia e' che i vermi salgano da sotto il pavimento, attraverso le fessure tra le assi. Rimuovo i bigattini, pulisco di nuovo tutto, ma non mi sento nella migliore predisposizione per fare colazione e iniziare la giornata. Mi distendo un attimo sul letto, accuratamente ripulito, e chiudo gli occhi.

Come una pioggerella rada, un rumore viene dal letto. Mi guardo attorno, e altri vermi marciano verso un riparo. Plick, e un altro verme appare sul letto. I vermi piovono dal soffitto, dalle fessure tra le assi. Ci deve essere un animale morto lassu', forse un topo. Questo spiega anche il terribile fetore nella stanza. Impacchetto rapidamente le mie cose, comprese le camice ancora umide, carico lo zaino e mi avvio, mentre la pioggerella di vermi continua a ticchettare sul materasso. Plick… plick.... plick....

mercoledì 14 novembre 2007

Vedi Rengat e poi muori


"Ti piacerebbe morire a Rengat? - Click". E' da prendere sul serio una telefonata minatoria sul telefono di uno dei nostri attivisti? Forse si, se due giorni prima qualcuno ha pensato bene di organizzare una manifestazione contro Greenpeace nella capitale della regione, Pekanbaru (due decine di persone, ma e' il pensiero che conta) e se il giorno dopo dei ceffi venuti da fuori, proclamatisi "brigata giovanile per la pace" distribuiscono a Kuala Cenaku un volantino che propone di buttare fuori Greenepeace dall'Indonesia e dal Kuala Cenaku in particolare. Alcuni dei ceffi, detto per inciso, erano in divisa. Della polizia secondo al testimonianza degli abitanti del villaggio.

Domani dimostrazione contro Greenpeace di fronte al piccolo ufficio provvisorio di Rengat. Incrociamo le dita. Noi intanto si continua a lavorare alle dighe. Oggi per la prima volta la diga non ha avuto flusso di controllo, il che vuol dire che abbiamo fermato completamente il coso dell'acqua. La torma si inumidisce di girono in giorno, e le nuove piante crescono a vista d'occhio. E col verde tornano anche gli animali: i pesci saltano nel canale stagnante, in due giorni si sono fatti vedere un orso, una specie di gatto selvatico (qui lo chiamano tigre delle radici) e dei gibboni. Un segno della foresta che verra'.

lunedì 12 novembre 2007

Naufragio nello Stretto di Malacca



Batam. Di nuovo sulla strada verso il porto. Tra le rocce basaltiche piccoli boschetti si specchiano sulle acque del lego. Guardo questo verde che non vedro' mai piu': se anche mai dovessi tornare, al suo posto trovero' banche, magazzini portuali e centri commerciali.

Il porto pero' e' ancora vecchio stile, a differenza del terminal per Singapore. Una fila di panche affollate da gnete carica di pacchi. Facchini spingono verso il molo carretti ingolfati di merce. Mi guardo attorno, siamo gli unici bianchi. Alla biglietteria ci hanno ritirato il biglietto e ce ne hanno dato un altro: stessa destinazione, stesso prezzo, ma un altro orario. Il primo sospetto e' che abbiano cancellato un viaggio per concentrare i passeggeri su un unico battello. Il sospetto si rafforza quando vedo la massa di gente che attende in fila.

Un impiegato grida le destinazioni "Sembulunsebulunembulung", "Bulanbulanbualn". Non sembra sia la nostra. Alla fine arriva il grido "Bilahabilahabilahan" Ci siamo, e' Tembilahan, almeno speriamo. Ed e' qui che l'iniziale sospetto diventa certezza: il traghetto non e' che un grosso motoscafo, non piu' grande di un pullman da 70 posti ben stretti, in cui si accalcano centoventi persone. Ci saranno posti per poco piu' della meta' delle persone. Guardo in alto, nelle piccole scansie che contengono i giubbotti salvagente. Non bastano neppure per i posti a sedere. Dietro il finestrino il porto e' gia' un puntino. Spero tanto di non dover fare un bagno in mare.

Il motoscafo coore sussultando sulle onde, col suo carico di gente compressa. Le isole si susseguono, una dietro l'altra. Ciuffi di mangrovie abbarbicate su fazzoletti di terra. Sono le isole a cui Conrad e tanti altri hanno affibbiato il sapore selvaggio e esotico, con storie di pirati e avventurieri dallo sguardo triste su un mare giallo e stagnante.

I vecchi malay invece raccontano altre storie. Leggende di esseri traslucidi che abitano presso alberi, rocce e insenature, e che tessono i destini degli uomini in trame segrete e innominabili. Scacciati dal progresso che sta divorando Batam, devono essersi rifugiati in queste isolette E mi sembra di sentine affiorare il respiro, dietro al frastuono del motore, in brandelli di profumo che la brezza porta dalla foresta.

Un sussulto improvviso mi riporta al battello. No, non e' un sussulto, e' un colpo secco, sulla fiancata. Il motoscafo inchioda in un tripudio insistente di sirene che perforano l'aria. Mi guardo attorno. Voci e grida incomprensibili. Decine di mani frugano concitatamene le scansie sopra i sedili e afferrano i giubbotti salvagente. Un bambino piange.

Non capisco cosa succede, so solo che per me i giubbotti sono fuori portata. Non c'e' molto che possa fare. Resto li' a pensare che non mi piacerebbe affondare in mezzo a tante mani disperate che mi tirano a fondo. Resto li a pensare quanto inutile sia il mio pensare. Il motoscafo oscilla sulle onde. Tutto attorno travi, taniche, bagagli scaraventati in acqua.

I secondi scorrono lenti, lentissimi, ma il battello non inizia a inclinarsi su un fianco, ne' ci sono spruzzi d'acqua da tutte le parti, non ancora almeno. Poi delle grida verso l'acqua mi fanno capire cosa e' successo. Una piccola barca di legno giace sventrata e capovolta. E' lei la vittima, non il mio battello. I giubbotti di salvataggio volano in acqua. Due uomini grondanti e in evidente stato di shock vengono tirati a bordo. Uno viene disteso sul tettuccio del motoscafo, non reagisce. L'altro grida qualcosa con voce rotta dal pianto, indicando il relitto quasi spezzato in due. E' scomparso un vecchio, il terzo passeggero della barchetta, disperso sotto i bagagli che fluttuano sparsi sulle onde.

Guardo le facce ammucchiate nel piccolo traghetto. Vecchi cinesi muti dallo sguardo impenetrabile, giovani donne che stringono i neonati, altre che si nascondono nei fazzoletti colorati che portano sul capo, giovani vecchi malay dai volti scavati. E fuori bordo, i due uomini che si sono gettati in acqua per cercare il vecchio e recuperare ameno parte dei bagagli. Mi domando a cosa stanno pensando. E penso a come e' difficile vivere e morire tra queste isole.

Penso a un corpo anziano che fluttua in una danza senza vita, in quello che avrebbe potuto essere il posto mio o di ciascuna di queste persone che mi circondano.

Penso che il mio corpo, le mie membra, il mio baglio sono stati massa d'urto, proiettile piantato in una vita spezzata. Mi domando come sono le facce che stanno aspettando un uomo che non tornera' piu', che nuota immobile sotto di me, sotto le taniche sparse, sotto le travi spezzate. Forse decine di esserini translucidi lo stanno accompagnando a nuoto verso luoghi misteriosi.

Barche di pescatori arrivano, caricano i feriti e quel che resta dei bagagli. Le sirene continuano a perforare l'aria, quando il motoscafo lentamente riparte, guidato da un pilota in stato di shock.

La pioggia arriva improvvisa, una striscia scura nel cielo giallastro. Calda e generosa, porta via sudore, lacrime e pensieri.

sabato 10 novembre 2007

Singapore


Singapore

Non e' un posto, Singapore e' un segno su una carta geografica, una citta' virtuale, un immenso transito di merci anone racchiuse in milioni di container uguali a se' stessi. E poi, grattacieli, giardini e centri commerciali, e tutto il necessario per una perfetta immagine di city globale, come in un modellino in scala appena uscito da uno studio di architetti. Qui hanno sede molte delle holding che governano il saccheggio delle foreste del Sud-est asiatico, dell'Oceania, dell'Africa, perfino dell'Amazzonia. Carta, legname, olio di palma passano di qui sotto forma di cascate numeriche, di rimbalzo tra conti bancari sparsi per il mondo. Ma non c'e' traccia di disordine, qui. Ordine, pulizia e consumo, comandamenti di un capitalismo asiatico liberista e autoritario. Qui perfino i piloni di cemento dei viadotti sono dipinti di un bianco immacolato, ed e' severamente vietato masticare chewing gum in pubblico. Solo frammenti nella citta' vecchia ricordano che ogni posto e' fatto di persone: un tempio buddista soffocato da grattacieli, una bettola cinese, un vicolo di retrobottega, ma sono solo labili dejavou, trasparenze inafferrabili.

E allora, via, di nuovo verso la costa dirimpettaia di Sumatra, e le sue sofferenti foreste. Ma non ci sono voli via Pekanbaru ne' via Jakarta. Bisogna andare via nave: traghetto per Batam, quindi altro battello per Tembilahan, e via strada fino a Rengat.

Arrivanti a Batam, scopriamo che il battello per Tembilahan parte da un altro porto, sul lato opposto dell'isola. L'aria e' arroventata dal sole. Bene, carichiamo i bagagli e cerchiamo un autobus che ci porti la'. Troviamo un pullman scalognato che ci porta traballando attraverso una strada costeggiata da colline, laghi e piccoli boschetti. Ma quando arriviamo scopriamo che frattempo il traghetto se n'e' andato. Dobbiamo aspettare l'indomani.

Cosi' passiamo la notte a Batam, citta' quieta e mezzo addormentato porto franco, pieno di negozi e dancing equivoci frequentati da mercanti cinesi e prostitute malay. Ma e' un sonno apparente. Sorella minore di Singapore, ha ricevuto lo status di zona franca che dovrebbe assicurarle uno sviluppo sfolgorante. Immigrati da tutta l'Indonesia accorrono a frotte intere citta' di villette a schiera vengono costruite sulle colline.

venerdì 2 novembre 2007

Pompieri scalzi


Kuala Cenaku, 2 novembre 2007. Il campo pullula di gente oggi. Le magliette verdi Selamarkan Hutan (proteggiamo le foreste) sono una minoranza, sovrastate dalle maglie rosse Pemadam Kebakaran Hutan (forest fires fighting).
Sono una sessantina di persona, occhi neri di ragazzi, che ti fissano con uno sguardo intenso e diretto, ma e' difficile indovinare l'eta' di ciascuno. Alcuni volti sono rugosi e disseccati dal sole, altri butterati da malattie sconosciute, altri ancora lisci e tesi come appena usciti da un istituto di bellezza. Sono venuti dalla citta' di Rengat e dai villaggi qui attorno. Sono studenti dell'universita' e contadini. Ascoltano in silenzio le spiegazioni dell'istruttore, un esperto di incendi forestali venuto da Jakarta. Spiega loro come attivare le pompe che pescano l'acqua dal canale, per bagnare la torba in prossimita' degli incendi, e fermare il tunnel di brace che avanza sotto la superficie, oppure come scavare pozzi di emergenza per portare l'acqua in superficie.
I ragazzi ascoltano le istruzioni, impalati e imbacuccati nelle tute, malgrado il sole a picco. Poi uno a uno azionano gli strumenti. E' così che nasce la brigata volontaria dei vigili del fuoco di Kuala Cenaku. Questa gente era abituata ad aprire i campi col fuoco. Una pratica usata da millenni nell'agricoltura semi nomade, lo slash and burn, senza creare radicali modifiche all'ambiente, almeno fino a quando si limitava a fazzolettini di terra circondati da foresta naturale. Ma con l'arrivo delle grandi piantagioni questa pratica e' divenuta letale, una devastazione senza ritorno.
I primi a pagare il prezzo dello sviluppo sono gli abitanti dei villaggi. Il fumo che avvolge le loro case per mesi interi lascia uno strascico di malattie respiratorie, specie tra i bambini. La crescita della mortalita' e' l'unica compensazione per le terre rubate alle comunita' locali.

Lavorano alacremente, sotto un solo impietoso, e quando la pompa manda uno spruzzo giallognolo verso il cielo, sembra acqua benedetta, come nuova speranza tra la terra bruciata.
Il training e' finito. I ragazzi tornano al campo, dove te', riso e banane fritte non mancano. E poi il giuramento, l'impegno di fronte alla comunita' a continuare i training e a proteggere la foresta.
Poi viene sempre l'ora di andare. I discorsi sono finiti, sessanta strette di mano, centoventi occhi che ti guardano dentro, che senti vicino. Sorrisi aperti e diretti a cui non sei abituato. E sai che molti di questi volti non li rivedrai mai piu'. Ma qualcosa ti lasciano dentro.