giovedì 22 novembre 2007

Un arcobaleno su Jakarta




Ci sono almeno sei diversi corpi di polizia ad aspettare l'attracco della Rainbow Warrior. Fanno sfoggio di divise, mostrine e ghette di colori e fogge diverse. E osservano.
Ma nesuna nave compare all'orizzonte. Per il semplice fatto che l'orizzonte non esiste. Il cielo sopra Jakarta e' un'unica e compatta massa grigiastra, a volte dalle tonalita' giallognole. E non potrebbe essere diverso, un cielo condannato a sonnecchiare sopra quindici milioni di abitanti, con i loro rifiuti bruciati in mezzo alla strada, con i loro otto milioni di veicoli che ogni giorno sbuffano e tossiscono folate nere.
Cosi', senza orizzonte, la Rainbow Warrior semplicemente emerge dalle foschia umida, si manifesta dal nulla, come un arcobaleno. E come un arcobaleno, e' una promessa. La nave arriva dal porto di Dumai, in Sumatra, dove ha bloccato per giorni un carico di olio di palma destinato all'Europa. Nelle settimane precedenti, a poca distanza, gli attivisti nel Forest Defender Camp, hanno conforntato direttamente l'espansione delle piantagioni di palma da olio, costruendo dighe dove le compagnie distruggono la foresta e drenano il terreno. E ora e' qui, nella capitale, che deve essere chiusa la partita, con una legge che vieti una volta per tutte la distruzione delle foreste umide e delle torbiere. Per proteggere il clima globale dal rilascio di carbonio causato dall'erosione della torba, e per proteggere le foreste dalla completa distruzione.
Come un arcobaleno dopo settimane di tempesta. Era ora.

venerdì 16 novembre 2007

Caccia all'orso



Sembra Emiliano Zapata. Grande e grosso, non parla mai e gli enormi baffi gli conferiscono un'espressione severa. Ma il sorriso e' dolce come quello di una scolaretta. Se ne sta seduto tutto il tempo, a guardare oltre l'orizzonte, il sarong blu notte avvolto attorno ai fianchi come su un antico guerriero giavanese, o drappeggiato sulle spalle con dignita' senatoriale.
Ci ha guardato in silenzio mentre indicavamo stupiti coppie di buceri o aquile di passaggio. Ci ha guardato in silenzio mentre discutevamo la specie di un gruppo di scimmie. Disapprova? Gli e' indifferente? Difficile dedurlo da quel silenzio, da quella nobile immobilita'.
Ma oggi si e' mosso, Emiliano Zapata.. Non si e' solo mosso. Mi ha afferrato per le spalle e trascinato via come un fuscello. Ha perfino parlato, spiegandomi nonsocche' con concitazione. Ma non ha mollato la presa.
E' uno che inspira fiducia, Emiliano Zapata, forse per il suo silenzio ostinato. Lo seguo docile lungo il sentiero, poi attraverso campi recentemente aperti. Un albero ancora brucia dalle radici, aspettando lo schianto che lo butti giu'. E io continuo a seguirlo, inciampando sulle radici, camminando sopra tronchi abbattuti. Lo seguo nella foresta, dove un albero abbattuto giace in un letto di segatura. Lo segui e non capisco dove, non capisco cosa succede. Ogni tanto giro lo sguardo verso il suo corpo massiccio, e lui mi risponde con uno sguardo di conferma e rassicurazione. Non mi resta che seguirlo. E o seguo attraverso gli sterpi le liane sempre piu' fitte, lo seguo mentre la foresta si fa nera come la notte.
Ed e' li, nel nero, che un'ombra nera si muove dondolando. Solo allora capisco cosa sta succedendo. E' un orso, si agita preso in una trappola di cacciatori. Finito per sbaglio nella trappola destinata a qualcun altro. Furioso e spaventato, affonda le zanne nell'albero cui è legata la corda che lo lega. E il tronco e'ora un unico ammasso di trucioli sparsi.



Sotto la gola la falce bianca che rende riconoscibile la sua specie, e' un orso malese, o sun bear. Del resto non c'e' una gran possibilita' di errore: e' l'unico orso che vive in Indonesia. Ma e' rarissimo. L'IUCN l'ha appena inserito nella lista rossa delle specie minacciate, denunciando un declino della popolazione del trenta per cento in trenta anni.
Trenta per cento in trenta anni. Che percentuale rappresenta la massa di pelo nero che si agita di fornte a me? Dal buio delle fronde appare un'altra figura, una specie di fauno, con un trenta per cento di maglietta sulle spalle, e un venti per cento di pantaloni alla cintola. Il resto sono muscoli scuri, tatuaggi e stringhe.
Improvvisamente il gap linguistico diventa un dramma. I due ora si aggirano attorno all'orso con minacciosa cautela. Studiano l'animale a debita distanza, tagliano rami lunghi e drtitti. Vorrei spiegare loro quanto e' raro questo animale, quanto e' prezioso. Cerco di spiegarmi a gesti, ma come spiegare a gesti che una specie animale e' in via di estinzione? E so che per loro e' un animale feroce, un pericolo per le famiglie e i bambini. Immagino le storie raccontate la sera, di fronte al fuoco, di orsi feroci e terribili, delle astuzie per mettersi in salvo dal terribile predatore. Cosi' terribile che e' praticamente vegetariano. Ma come spiegarmi? E' uno scontro antico, ancestrale, tra l'Uomo e la Bestia, fatto di paure reciproche, che non consoce ragioni.
La povera bestia agita le zampe. I lunghi artigli lasciano file di solchi nella corteccia degli alberi circostanti.
Ma io cosa ci faccio qui, tra i cacciatori? Sono la persona sbagliata nel posto sbagliato. E nel momento sbagliato. L'orso latra come un cane al laccio. Attorno a lui e' un campo di battaglia di rami spezzati, fronde affastellate. Le parole vagano senza meta, senza effetto. Sono parole inutili, morte. Il terrore accomuna preda e cacciatori.
E' sera ormai. Altre ombre si sono materializzate tra le fronde sempre piu' scure. E' la gente delle baracche della zona. Sono venuti tutti per la caccia all'orso.
Ormai siamo alla fase finale. Con lunghi bastoni immobilizzano l'animale, con mosse precise, caute, evitando i fendenti artigliati dell'orso. Rapidamente strisce di corteccia catturano le zampe, le immobilizzano, fissandole ai bastoni. Dura un attimo, e l'animale e' legato attorno al bastone. Le parole continuano a uscire mute dalla mia bocca. L'orso continua a latrare disperato.
Finalmente trovo qualcuno in grado di tradurre qualche spezzone di frase. Mi rassicura: nessuno mangia orsi qui, ne' si uccide senza ragione. Ma l'orso minaccia le famiglie, i bambini, e torna sempre nel posto del primo incontro. Quindi lo porteranno lontano, oltre il fiume, dove non sara' piu' una minaccia.
Vorrei sentirmi rassicurato, ma i guaiti dell'animale non me lo consentono. Continuo ad essere nel posto sbagliato. Ma chi di noi e' nel posto giusto? L'orso? I volti spaventati della gente che mi circonda? No, non e' il posto giusto per nessuno, qui.



La zanzariera oscilla lievemente. La pioggia cade ticchetando sul tetto di foglie, come una solerte dattilografa. L'aria è calda e oleosa. Travi e bambù creano un intarsio di poligono a righe orizzontali e verticali, come una intarsio giavanese. Attraverso i veli, fuori dalla finestrella gli alberi come ombre nere oscillano al vento contro un cielo sempre più scuro.
Il mondo sembra muoversi con leggerezza, come navigando sul pelo di onde leggere. O forse e' la febbre che ricordi e delirio in un'unica trama. Poi i brividi lasciano spazio a un sonno pesante e senza colori. Rincantucciato nel fondo del sacco a pelo, ritrovo finalmente il posto giusto.

giovedì 15 novembre 2007

Notte in citta'


Dopo una giornata di cammino nel fango, finalmente posso mettermi a letto. Ma quando sistemo il sacco a pelo gia' disteso sul materasso, ci trovo sotto un nido di bigattini. Forse e' rimasto qualche avanzo di cibo da qualche parte, forse dovrei lavare tutto. In effetti c'e' un fetore eccessivo nella stanza. Guardo ai vestiti messi a stendere, zuppi di fango e sudore. Cerco di lavarre alla meno peggio qualche camicia, rimuovo i bigattini, scopo accuratamente per terra, ne trovo altri sotto le assi del pavimento. Alla fine ho pulito tutto, e mi metto a dormire stremato.

Fra me e me penso di essere una persona un po' troppo suggestionabile. Sto ancora dormendo, accoccolato sul sacco a pelo, la mano sotto il cuscino, e mi ripeto di non lasciarmi impressionare, di continuare a dormire. Ma la sensazione di avere la mano piena di vermi continua a restare. E' solo una sensazione. E' un sentire-non sentire, un impercettibile movimento. E' solo un'impressione. Ma troppi concetti non aiutano il sonno, e alla fine mi sveglio. Guardo la mia mano ed e' in effetti piena di vermi. Ce n'e' una bella popolazione annidata sotto il cuscino. Mi domando da dove siano venuti, spero non dalle mie orecchie. Alla mente mi tornano vecchi film dell'orrore, con flussi di vermi che escono dal naso e dalla bocca. Basta sciocchezze, la cosa piu' ovvia e' che i vermi salgano da sotto il pavimento, attraverso le fessure tra le assi. Rimuovo i bigattini, pulisco di nuovo tutto, ma non mi sento nella migliore predisposizione per fare colazione e iniziare la giornata. Mi distendo un attimo sul letto, accuratamente ripulito, e chiudo gli occhi.

Come una pioggerella rada, un rumore viene dal letto. Mi guardo attorno, e altri vermi marciano verso un riparo. Plick, e un altro verme appare sul letto. I vermi piovono dal soffitto, dalle fessure tra le assi. Ci deve essere un animale morto lassu', forse un topo. Questo spiega anche il terribile fetore nella stanza. Impacchetto rapidamente le mie cose, comprese le camice ancora umide, carico lo zaino e mi avvio, mentre la pioggerella di vermi continua a ticchettare sul materasso. Plick… plick.... plick....

mercoledì 14 novembre 2007

Vedi Rengat e poi muori


"Ti piacerebbe morire a Rengat? - Click". E' da prendere sul serio una telefonata minatoria sul telefono di uno dei nostri attivisti? Forse si, se due giorni prima qualcuno ha pensato bene di organizzare una manifestazione contro Greenpeace nella capitale della regione, Pekanbaru (due decine di persone, ma e' il pensiero che conta) e se il giorno dopo dei ceffi venuti da fuori, proclamatisi "brigata giovanile per la pace" distribuiscono a Kuala Cenaku un volantino che propone di buttare fuori Greenepeace dall'Indonesia e dal Kuala Cenaku in particolare. Alcuni dei ceffi, detto per inciso, erano in divisa. Della polizia secondo al testimonianza degli abitanti del villaggio.

Domani dimostrazione contro Greenpeace di fronte al piccolo ufficio provvisorio di Rengat. Incrociamo le dita. Noi intanto si continua a lavorare alle dighe. Oggi per la prima volta la diga non ha avuto flusso di controllo, il che vuol dire che abbiamo fermato completamente il coso dell'acqua. La torma si inumidisce di girono in giorno, e le nuove piante crescono a vista d'occhio. E col verde tornano anche gli animali: i pesci saltano nel canale stagnante, in due giorni si sono fatti vedere un orso, una specie di gatto selvatico (qui lo chiamano tigre delle radici) e dei gibboni. Un segno della foresta che verra'.

lunedì 12 novembre 2007

Naufragio nello Stretto di Malacca



Batam. Di nuovo sulla strada verso il porto. Tra le rocce basaltiche piccoli boschetti si specchiano sulle acque del lego. Guardo questo verde che non vedro' mai piu': se anche mai dovessi tornare, al suo posto trovero' banche, magazzini portuali e centri commerciali.

Il porto pero' e' ancora vecchio stile, a differenza del terminal per Singapore. Una fila di panche affollate da gnete carica di pacchi. Facchini spingono verso il molo carretti ingolfati di merce. Mi guardo attorno, siamo gli unici bianchi. Alla biglietteria ci hanno ritirato il biglietto e ce ne hanno dato un altro: stessa destinazione, stesso prezzo, ma un altro orario. Il primo sospetto e' che abbiano cancellato un viaggio per concentrare i passeggeri su un unico battello. Il sospetto si rafforza quando vedo la massa di gente che attende in fila.

Un impiegato grida le destinazioni "Sembulunsebulunembulung", "Bulanbulanbualn". Non sembra sia la nostra. Alla fine arriva il grido "Bilahabilahabilahan" Ci siamo, e' Tembilahan, almeno speriamo. Ed e' qui che l'iniziale sospetto diventa certezza: il traghetto non e' che un grosso motoscafo, non piu' grande di un pullman da 70 posti ben stretti, in cui si accalcano centoventi persone. Ci saranno posti per poco piu' della meta' delle persone. Guardo in alto, nelle piccole scansie che contengono i giubbotti salvagente. Non bastano neppure per i posti a sedere. Dietro il finestrino il porto e' gia' un puntino. Spero tanto di non dover fare un bagno in mare.

Il motoscafo coore sussultando sulle onde, col suo carico di gente compressa. Le isole si susseguono, una dietro l'altra. Ciuffi di mangrovie abbarbicate su fazzoletti di terra. Sono le isole a cui Conrad e tanti altri hanno affibbiato il sapore selvaggio e esotico, con storie di pirati e avventurieri dallo sguardo triste su un mare giallo e stagnante.

I vecchi malay invece raccontano altre storie. Leggende di esseri traslucidi che abitano presso alberi, rocce e insenature, e che tessono i destini degli uomini in trame segrete e innominabili. Scacciati dal progresso che sta divorando Batam, devono essersi rifugiati in queste isolette E mi sembra di sentine affiorare il respiro, dietro al frastuono del motore, in brandelli di profumo che la brezza porta dalla foresta.

Un sussulto improvviso mi riporta al battello. No, non e' un sussulto, e' un colpo secco, sulla fiancata. Il motoscafo inchioda in un tripudio insistente di sirene che perforano l'aria. Mi guardo attorno. Voci e grida incomprensibili. Decine di mani frugano concitatamene le scansie sopra i sedili e afferrano i giubbotti salvagente. Un bambino piange.

Non capisco cosa succede, so solo che per me i giubbotti sono fuori portata. Non c'e' molto che possa fare. Resto li' a pensare che non mi piacerebbe affondare in mezzo a tante mani disperate che mi tirano a fondo. Resto li a pensare quanto inutile sia il mio pensare. Il motoscafo oscilla sulle onde. Tutto attorno travi, taniche, bagagli scaraventati in acqua.

I secondi scorrono lenti, lentissimi, ma il battello non inizia a inclinarsi su un fianco, ne' ci sono spruzzi d'acqua da tutte le parti, non ancora almeno. Poi delle grida verso l'acqua mi fanno capire cosa e' successo. Una piccola barca di legno giace sventrata e capovolta. E' lei la vittima, non il mio battello. I giubbotti di salvataggio volano in acqua. Due uomini grondanti e in evidente stato di shock vengono tirati a bordo. Uno viene disteso sul tettuccio del motoscafo, non reagisce. L'altro grida qualcosa con voce rotta dal pianto, indicando il relitto quasi spezzato in due. E' scomparso un vecchio, il terzo passeggero della barchetta, disperso sotto i bagagli che fluttuano sparsi sulle onde.

Guardo le facce ammucchiate nel piccolo traghetto. Vecchi cinesi muti dallo sguardo impenetrabile, giovani donne che stringono i neonati, altre che si nascondono nei fazzoletti colorati che portano sul capo, giovani vecchi malay dai volti scavati. E fuori bordo, i due uomini che si sono gettati in acqua per cercare il vecchio e recuperare ameno parte dei bagagli. Mi domando a cosa stanno pensando. E penso a come e' difficile vivere e morire tra queste isole.

Penso a un corpo anziano che fluttua in una danza senza vita, in quello che avrebbe potuto essere il posto mio o di ciascuna di queste persone che mi circondano.

Penso che il mio corpo, le mie membra, il mio baglio sono stati massa d'urto, proiettile piantato in una vita spezzata. Mi domando come sono le facce che stanno aspettando un uomo che non tornera' piu', che nuota immobile sotto di me, sotto le taniche sparse, sotto le travi spezzate. Forse decine di esserini translucidi lo stanno accompagnando a nuoto verso luoghi misteriosi.

Barche di pescatori arrivano, caricano i feriti e quel che resta dei bagagli. Le sirene continuano a perforare l'aria, quando il motoscafo lentamente riparte, guidato da un pilota in stato di shock.

La pioggia arriva improvvisa, una striscia scura nel cielo giallastro. Calda e generosa, porta via sudore, lacrime e pensieri.

sabato 10 novembre 2007

Singapore


Singapore

Non e' un posto, Singapore e' un segno su una carta geografica, una citta' virtuale, un immenso transito di merci anone racchiuse in milioni di container uguali a se' stessi. E poi, grattacieli, giardini e centri commerciali, e tutto il necessario per una perfetta immagine di city globale, come in un modellino in scala appena uscito da uno studio di architetti. Qui hanno sede molte delle holding che governano il saccheggio delle foreste del Sud-est asiatico, dell'Oceania, dell'Africa, perfino dell'Amazzonia. Carta, legname, olio di palma passano di qui sotto forma di cascate numeriche, di rimbalzo tra conti bancari sparsi per il mondo. Ma non c'e' traccia di disordine, qui. Ordine, pulizia e consumo, comandamenti di un capitalismo asiatico liberista e autoritario. Qui perfino i piloni di cemento dei viadotti sono dipinti di un bianco immacolato, ed e' severamente vietato masticare chewing gum in pubblico. Solo frammenti nella citta' vecchia ricordano che ogni posto e' fatto di persone: un tempio buddista soffocato da grattacieli, una bettola cinese, un vicolo di retrobottega, ma sono solo labili dejavou, trasparenze inafferrabili.

E allora, via, di nuovo verso la costa dirimpettaia di Sumatra, e le sue sofferenti foreste. Ma non ci sono voli via Pekanbaru ne' via Jakarta. Bisogna andare via nave: traghetto per Batam, quindi altro battello per Tembilahan, e via strada fino a Rengat.

Arrivanti a Batam, scopriamo che il battello per Tembilahan parte da un altro porto, sul lato opposto dell'isola. L'aria e' arroventata dal sole. Bene, carichiamo i bagagli e cerchiamo un autobus che ci porti la'. Troviamo un pullman scalognato che ci porta traballando attraverso una strada costeggiata da colline, laghi e piccoli boschetti. Ma quando arriviamo scopriamo che frattempo il traghetto se n'e' andato. Dobbiamo aspettare l'indomani.

Cosi' passiamo la notte a Batam, citta' quieta e mezzo addormentato porto franco, pieno di negozi e dancing equivoci frequentati da mercanti cinesi e prostitute malay. Ma e' un sonno apparente. Sorella minore di Singapore, ha ricevuto lo status di zona franca che dovrebbe assicurarle uno sviluppo sfolgorante. Immigrati da tutta l'Indonesia accorrono a frotte intere citta' di villette a schiera vengono costruite sulle colline.

venerdì 2 novembre 2007

Pompieri scalzi


Kuala Cenaku, 2 novembre 2007. Il campo pullula di gente oggi. Le magliette verdi Selamarkan Hutan (proteggiamo le foreste) sono una minoranza, sovrastate dalle maglie rosse Pemadam Kebakaran Hutan (forest fires fighting).
Sono una sessantina di persona, occhi neri di ragazzi, che ti fissano con uno sguardo intenso e diretto, ma e' difficile indovinare l'eta' di ciascuno. Alcuni volti sono rugosi e disseccati dal sole, altri butterati da malattie sconosciute, altri ancora lisci e tesi come appena usciti da un istituto di bellezza. Sono venuti dalla citta' di Rengat e dai villaggi qui attorno. Sono studenti dell'universita' e contadini. Ascoltano in silenzio le spiegazioni dell'istruttore, un esperto di incendi forestali venuto da Jakarta. Spiega loro come attivare le pompe che pescano l'acqua dal canale, per bagnare la torba in prossimita' degli incendi, e fermare il tunnel di brace che avanza sotto la superficie, oppure come scavare pozzi di emergenza per portare l'acqua in superficie.
I ragazzi ascoltano le istruzioni, impalati e imbacuccati nelle tute, malgrado il sole a picco. Poi uno a uno azionano gli strumenti. E' così che nasce la brigata volontaria dei vigili del fuoco di Kuala Cenaku. Questa gente era abituata ad aprire i campi col fuoco. Una pratica usata da millenni nell'agricoltura semi nomade, lo slash and burn, senza creare radicali modifiche all'ambiente, almeno fino a quando si limitava a fazzolettini di terra circondati da foresta naturale. Ma con l'arrivo delle grandi piantagioni questa pratica e' divenuta letale, una devastazione senza ritorno.
I primi a pagare il prezzo dello sviluppo sono gli abitanti dei villaggi. Il fumo che avvolge le loro case per mesi interi lascia uno strascico di malattie respiratorie, specie tra i bambini. La crescita della mortalita' e' l'unica compensazione per le terre rubate alle comunita' locali.

Lavorano alacremente, sotto un solo impietoso, e quando la pompa manda uno spruzzo giallognolo verso il cielo, sembra acqua benedetta, come nuova speranza tra la terra bruciata.
Il training e' finito. I ragazzi tornano al campo, dove te', riso e banane fritte non mancano. E poi il giuramento, l'impegno di fronte alla comunita' a continuare i training e a proteggere la foresta.
Poi viene sempre l'ora di andare. I discorsi sono finiti, sessanta strette di mano, centoventi occhi che ti guardano dentro, che senti vicino. Sorrisi aperti e diretti a cui non sei abituato. E sai che molti di questi volti non li rivedrai mai piu'. Ma qualcosa ti lasciano dentro.

martedì 30 ottobre 2007

Kris Yoyo




Kuala Cenaku, 30 ottobre 2007. Kris Yoyo e' ingegnere sul campo. Corpo adulto e occhi da bambino, Kris sembra un attore, ma il suo mestiere e' un altro. Kris costruisce dighe, organizza pattuglie contro il talgio illegale, lavora alla brigata volontaria antincendi della sua regione, in Kalimantan.
Kris nuoa come una lontra tra i pali conficcati nel canale. Tiene il metro in una mano, la sigaretta nell'altra, e non bagna mai nessuno dei due. Misura, da' indicazioni alla scuadra di lavoro, aggiusta le distanze tra le assi, controlla che tutto funzioni come deve. E lavora assieme agli altri, non ha problemi a sporcarsi le mani, ne' si stanca, perche' Kris e' ingegnere sul campo. La sua universita' e' stata la foresta, la sua facolta' il taglio illegale.

Quanti alberi avra' abbattuto? Nessuno puo' dirlo, certamente migliaia. E senza un rimpianto. Dopo le superiori non c'era modo di frequantare l'universita', e Kris si e' cercato un lavoro. Il lavoro a disposizione era il tagliaboschi. Su duemila abitanti nella sua comuita', trecento erano tagliaboschi. E ris e' diventato tagliaboschi. Lavorava con la sua squadra, due ore di lavoro, e un albero andava giu, due ore, e un altro albero. E cosi' per intere settimane, e poi per altre settimane a portar via i tronchi. Una ventina di Euro (300.000 Rupie) per un tronco di ramino che in Europa veniva venduto per migliaia di Euro, ma in buona parte finivano nelle tasche degli intermediari, i baroni del ramino, che gestivano i canali e affittavano le motoseghe. Una volta scavato il canale, il barone si assicurava il controllo della foresta circostante. La legge del fatto compiuto.

Dal 2003 Kris fa un lavoro diverso. Organizza le unità di pattuglia contro il legno illegale, un progetto che invece di mobilitare la polizia, comunque corrotta, ha coinvolto le comunita' locali. E chi sa meglio come combattere il legno illegale, se non chi ci e' passato?

Ora Kris e' contento. A volte i suoi ex colleghi lo mettono in mezzo, si prendono gioco di lui, ma lui tira dritto. Sa che che oltra a un lavoro ha anche uno scopo.

lunedì 29 ottobre 2007

Il salto della nave



Kuala Cenaku, 29 ottobre 2007. Il sole si alza dietro agli alberi. Una coppia di buceri saluta la giornata sorvolando a grandi falcate la piccola squadra di magliette arancione chiazzate di fango: "Tim Pembendung Kanal - Damming Crew". Ma nessuno indossa i guanti zuppi, c'e' qualcosa che non quadra: dall'altro lato della diga, ancora in costruzione e' posteggiato un lungo battello, di una decina di metri e passa. Fermo, come a un semaforo sempre rosso.
No, questa davvero non ce l'aspettavamo. Che ci fa un'imbarcazione di quella portata in un canale di drenaggio?
Dalla barca escono un uomo e una donna, e dietro la il tendone fanno capolino tre bambini. I vestiti sono stracci scoloriti, i volti portano il peso di rassegnati, abituati a vagare sul fango se su fatiche grandi.
Uno scambio di sigarette e di parole, ed esce una nuova storia. Abitavano nella foresta, pescando, coltivando un po' di manioca in un fazzoletto di terra. Poi sono arrivati gli impiegati della compagnia e gli hanno detto di andarsene. Così, da un giorno all'altro. Hanno messo le loro poche cose sulla barca-casa, e si sono avviati. Ma nessuno gli aveva detto che il canale era chiuso. Ora aspettano, con la pazienza di chi non ha alternative.

Che si fa? Di smontare il canale non se ne parla, e poi i pali sono ormai profondamente conficcati nel terreno, non mollerebbero mai la presa. No, la soluzione e' solo una: costruire uno scivolo per la barca, sopra la diga. E poi tirare, tirare, con tutta la forza possibile.
Mentre costruiamo lo scivolo la marea lentamente sale. L'acqua inverte la marcia e fluisce dal fiume, riempiendo il canale. La barca poco a poco si solleva. Quando iniziamo a tirare tutte le corde con cui abbiamo imbragato al nave, sembra una scena surreale, a meta' tra Frizcarraldo e un kolossal sulle piramidi egiziane. Ma e' tutto vero. Alla fine l'imbarcazione si arrampica in cima alla diga e si tuffa pigramente dall'altra parte, immergendosi senza danni apparenti.
"Selamat tinggal, Pak" arrivederci zio. Due braccia si agitano nell'aria, sulla barca che si allontana, mentre nuove travi continuano ad impilarsi sulla diga in costruzione.

domenica 28 ottobre 2007

Arriva la polizia



Kuala Cenaku, 28 ottobre 2007.
Sono venuti nel pomeriggio al campo, apparentemente una visita di cortesia. Poche divise, molti abiti in borghese. Ma tanti. Uno dopo l'altro entrati dal viottolo che porta al fiume. Uno dopo l'altro, ventidue poliziotti venuti da Kuala Cenacu, Rengat, Pekambaru. E hanno intimato a tutti gli stranieri di lasciare il campo. E infatti la presenza degli stranieri significa attenzione internazionale e pressione politica, atorno a cui si sviluppano leggende di spie e faccendieri: ogni straniero qui e' potenzialmente un agente segreto.
Ma il clima e' disteso, non c'e' tensione, almeno non ancora. Due dei nostri si siedono sotto un tendone con i ventidue rappresentanti dell'ordine, e inizia una lunga trattativa, intervallata da te', caffe' e sigarette. Alla fine rinunciano a portarsi via gli stranieri, e decidono di lasciare il campo. Ma due di loro resteranno con noi, per nostra protezione, ci dicono. E così due poliziotti si apprestano a risiedere in pianta stabile al Forest Defenders Camp. Ma non resteranno a lungo: una sera di fronte al fuoco e le leggende sugli uomini-tigre che infestano questo lembo di terra bastano a fargli cambiare idea. Di buon mattino si avviano verso il fiume per non farsi piu' vedere.
Beh, essere salvati dall'uomo-tigre e' pur sempre un'esperienza non comune.

mercoledì 24 ottobre 2007

Ritorno a Kuala Cenaku



Kuala Cenaku, Sumatra
Un gruppo di bambini siede abbarbicato sul piccolo molo traballante e osserva le operazioni di carico dei gommoni. I motori richiedono una revisione, e il sole e' gia' alto quando vengono mollate le cime. Il fiume continua a scorrere contro corrente col suo carico di giacinti d'acqua, lentamente. Sembra che il tempo scorra seguendo ritmi antichi. A volte si arriva in mezzora, a volte in due ore. A volte quando capita.
Appena attraccato iniziamo a scaricare l'attrezzatura portata dal Kalimantan, e subito iniziamo a testare il terreno. Kitzo maneggia gli strumenti con cura. Semplici pezzi di ferro robusto, ma ingegnosamente messi assieme. La perforatrice per i carotaggi non e' che una specie di grosso coltello che si avvita a un manico di ferro. Ne risulta una sorta di alabarda che viene conficcata con forza nel terreno, fino a quando non e' completamente affondata nella torba. Se non affonda perche' incontra una radice si cambia punto e si ricomincia da capo. Se si raggiunge il fondo bisogna svitare e aggiungere una prolunga, quindi si torna a spingere. Metro dopo metro, la perforatrice continua ad affondare, fino a quando non arriva al suolo minerale. A questo punto la perforatrice viene girata su se' stessa, e una faccia del "coltello" si sfoglia come la pagina di un libro, catturando una perfetta carota di suolo. A quel punto basta tirare su tutto quanto e misurare.
In ogni foro nel terreno viene piantato un tubo di plastica bloccato sul fondo e perforato ogni dieci centimetri con un chiodo rovente. L'acqua che impregna la torba entra nel tubo dai piccoli fori, e il tubo si riempie consentendo facilmente di misurare il livello dell'acqua nel terreno.

Ogni cinquecento metri, un nuovo foro. Ai margini della piantagione registriamo quasi cinque metri e mezzo di torba, molto di piu' di quanto consentito dalla legge. Mano a mano che si va verso il centro della piantagione, lo spessore della torba aumenta, fino a essere piu' profondo della perforatrice con tutte le prolunghe montate: otto metri. Siamo una maschera di fango nero e viscido, appena allungato dalla pioggia che da qualcue ora ha iniziato a inzupparci.

Ma la profondita' dell'acqua non supera il metro e mezzo. La torba e' ancora umida. Ma il canale a un passo da noi continua a trascinare via acqua. "Se il drenaggio viene fermato subito, qui siamo ancora in tempo - commenta Kitso - Ma se aspettiamo cinque anni sara' troppo tardi. Come la' da noi, in Kalimantan". La foresta e' stata ormai abbattuta, almeno da questo lato, ma il suolo e' ancora vivo. Ai nostri piedi un vivace torrente di acqua nera e spumosa se ne va verso il fiume con l'acqua drenata dai canali. Stavolta possiamo fare ancora qualcosa. Vale la pena di tentare, anche se qualcuno si arrabbiera'.

Sulla via del ritorno la pioggia continua a battere il fiume. L'aria si e' fatta fredda, e sulle acque ancora tiepide si formano batuffoli di nebbiolina. Un paesaggio magico e surreale, che sembra venire da altri mondi.

martedì 23 ottobre 2007

Sul fiume


Kualacenaku, 29 agosto. La piccola barca da pesca si avvia faticosamente. Il motore di fabbricazione cinese deve essere stato piu' e piu' volte modificato. Ora e' un insieme di ammaccate pentole tenute assieme con lo spago. Quando alla fine riesce a partire, fa un baccano del diavolo, sputando gorghi di fumo nero e schizzi d'acqua ogni volta che si incanta. Teres tiene con un piede la corda legata alla leva di accensione, e con l'altro un bastone legato all'acceleratore. Mentre il motore sussulta in preda alle convulsioni, la barca scivola sul fiume leggera.
Lungo il fiume donne che lavano i panni e uomini che fanno toletta, piu' di rado qualche pescatore. Ciuffi di giacinti d'acqua corrono speditamente verso la sorgente come se risalissero la corrente, allungando i loro colli di cigni con eleganza desueta. In realta' e' la corrente a risalire il fiume, spinta dalla marea montante a decine di chilometri di qui. E la mare ci porta lungo il fiume verso le concessioni di palma da olio.

Sulla via


Pekanbaru, 26 agosto. Cerco di ricordami di quel poster, quando sono sul pullman. Il finestrino e' il retroscena di quella pubblicita', l'altra faccia della stessa macchina: guadagni per pochi, distruzione e miseria per tutti gli altri. In realta' non e' un pullman, e' un semplice furgoncino. Ma ha gli stessi passeggeri di un pullman, e ogni volta che prende velocita', cioe' sempre, bascula come una valigia a rotelle troppo carica, schivando di un pelo autocarri e biciclette. Ma sono ormai quasi cinque ore che sfreccia tutta velocita', e il panorama ai bordi della strada e' sempre lo stesso: palme, palme, palme. Ogni tanto un brandello di foresta, ogni tanto un campo di riso, ogni tanto un'area spianata da cui emergono come neri artigli i ceppi bruciati degli alberi abbattuti. E' uno scenario che si ripete senza finire mai, impossibile credere che na ventina di anni fa qui c'erano grandi foreste. Eppure e' cosi'. Poi sono arrivate le prime piantagioni di gomma, poi il taglio a raso su vasta scala e le piantagioni di acacia, e alla fine e' ecco la palma da olio.

Man mano che il pullmino divora la strada, le aree bruciate si fanno piu' estese. E i risultati si vedono: gli incendi diffusi in Indonesia nel 1997 hanno rilasciato oltre 2,57 miliardi di tonnellate di carbonio. Da allora, ad ogni stagione asciutta, migliaia di incendi hanno rilasciato ogni anno tra i 0,39 e i 1,18 miliardi di tonnellate di carbonio. Queste emissioni sono destinate a crescere parallelamente alla conversione delle foreste palustri in piantagioni di palma da olio.
E questo e' facile da dire. Ma vederlo con i tuoi occhi fa un effetto diverso. Fuori dal finestrino scorre per chilometri un brullo campo di terra abbrustolita, sempre uguale a se' stessa. Alla fine ti appisoli, e quando una buca di sveglia con un sussulto, non sai quanto tempo dopo, il campo e' ancora li, che scorre come un nastro incantato. Un nastro che scorre, scorre, scorre, fino al villaggio di Kualacenaku. La frontiera della foresta e' arrivata qui, con la sua organizzazione di motoseghe, ruspe e canali.

Kualacenaku


Kualacenaku, 28 agosto. Il villaggio e' un gruppo di casette e capanne stretto fra il fiume e la strada. Camion sfrecciano tra i bambini che giocano, portando petrolio, olio, frutti di palma. Non e' da ieri che la gente di Kualacenaku si batte contro le grandi compagnie. Una decina di anni fa sono riusciti a cacciare via una grande impresa che si era impossessata delle loro terre. Ora se ne e' presentata un'altra, Duta Palma si chiama, e mostra di aver imparato la lezione: in men che non si dica ha deforestato, scavato canali, drenato e messo a coltivazione una buona parte delle terre comunitarie. E' la politica del fatto compiuto. Ma non si ferma qui. I macchinari continuano ad avanzare, mangiando ogni giorno nuove fette di foresta. In mano ha un permesso di concessione rilasciato dal governo provinciale. Una recente investigazione della polizia della provincia di Riau ha dimostrato come gran parte dei permessi nella regione siano stati rilasciati in modo illegale, ma Duta Palma non si preoccupa: ha gia' travalicato i limiti della concessione assegnata, e continua a spingersi avanti, come se dovesse raggiungere i confini del cielo. E' verso questi confini che andiamo.

lunedì 22 ottobre 2007

Sulle dighe



Kuala Cenaku, 22 ottobre 2007. Ci si alza tutti prima dell'alba. Non e' il freddo, qui anche la pioggia e' calda, ma indossare appena svegliati i vestiti fradici di fango del giorno prima non e' una cosa piacevole. Eppure e' saggio: meglio tenere la maglia asciutta per la sera, quando torneremo al campo distrutti di stanchezza.
Imprecando, i piedi rientrano negli stivali di gomma, le vesciche strillano, le dita slogate protestano, le ossa sono ammaccate, ma il caffe' e' caldo, e ti rimette sempre su. Un altro giorno di lavoro duro, al canale di drenaggio. A trascinare travi e sacchi di sabbia, a scavare immersi nell'acqua fino al collo, a piantar travi nella torba col bum-bum, il gigantesco martello fatto con una sezione di tronco.
Nessuno pensava che fosse semplice costruire dighe sui canali. No, nessuno lo pensava, ma ora il corpo si ribella. I piedi scivolano sulle passerelle che a mala pena affiorano sul mare di fango, le mani perdono la presa sulle travi irte di schegge, gli attrezzi scivolano. Non e' che dentro una sauna finlandese ti verrebbe proprio voglia di darti ai lavori pesanti.
Ma colpo dopo colpo, uno dopo l'altro i tronchi penetrano nella torba per uno, due, tre metri. E una dopo l'altra, file di tronchi creano uno sbarramento all'acqua. Sacco dopo sacco, le file di tronchi si riempiono di sabbia, uno sbarramento fatto per durare, almeno fino a quando la foresta sara' ricresciuta, e sara' lei a prendersi cura del canale e a regolare il flusso dell'acqua.



Quando l'ultimo palo viene conficcato e i sacchi di sabbia iniziano a riempire il fondo del canale, il livello dell'acqua si alza a vista d'occhio. La torba succhia l'acqua man mano che sale, si riempie, si gonfia, prepara nuova vita.
Ai margini della piantagione, tra i tizzoni carbonizzati abbiamo trovato giovani piante di meranti, duriam, garcinia e bintangor: segno che la vita e' ancora disposta a tornare su questa terra, se torna l'acqua. Ogni anno milioni investiti in piani di riforestazione se ne vanno in fumo su un suolo ormai compromesso, su una torba ormai disseccata. E allora, perche' aspettare? Agire subito, per non avere rimpianti domani. A un chilometro di qui abbiamo scovato una popolazione di gibboni, confinati dall'avanzata delle ruspe in un fazzolettino di foresta residua. Di sicuro non se la passano bene, ma se la foresta tornera' ad espandersi, si cureranno loro di ripopolarla.

domenica 2 settembre 2007

Kalimantan, Sumatra - Dighe contro il fuoco


Palang Karaya, Kalimantan

Campi verdi scorrono sotto un cielo brillante. Il vento fresco mi smuove i capelli, sotto di me un motore canta. Gli occhi appena aperti faticano a mettere a fuoco quel verde. Sembra di vedere fasci d'erba tenera ammassati a ciuffi sotto i muri a secco delle malghe alpine. Una palma isolata mi proietta di colpo ai tropici, e ricordo di essere seduto su una motocicletta in viaggio tra Palangka Raya e Sebangau, nel Kalimantan Centrale.
Davanti a me Ciscius guida ad andatura costante, oscillando dolcemente sulla strada irregolare. Ai bordi della via un mare di felci si china in onde regolari al passaggio del mezzo. Ciscius lavora all'Universita', ma non insegna formule, non tiene esami. Il suo lavoro e' nei campi e nelle foreste, il laboratorio del mondo.

Mi stropiccio gli occhi spaesato, ma non sono troppo stupito per lo sfasamento. e' stato un vero e proprio viaggio nel tempo, quello in cui Ciscius mi ha guidato. Una visita al futuro prossimo di Sumatra e Papua: i grandi progetti agricoli di sviluppo che hanno portato solo miseria, incendi e devastazione ambientale. Un milione di ettari, era lo slogan. Un progetto megalitico: bonificare le foreste palustri e trasformarle nella ciotola di riso dell'Indonesia, facendo diventare il paese esportatore mondiale di cereale.

Un esercito di contadini e' stato deportato dalle regioni sovrappopolate di Java fin nel cuore delle paludi torbiere del Kalimantan Centrale. Gli hanno assegnato un fazzoletto di terra rasa al suolo, e se ne sono andati via. Solo che non era terra, era torba. E sotto la torba, sabbia. Un suolo improduttivo e soggetto a incendi terribili, come tutte le torbiere drenate e disseccate. Anche perche' il fuoco e' l'unico modo economico per rendere appena un po' fertile un suolo che non lo e', almeno per una stagione. Ma anno dopo anno, fuoco dopo fuoco, la torba finisce in cenere e viene drenata via. Quel che resta e' sabbia sterile.

Dopo pochi anni di vita nella miseria, migliaia di questi contadini sono scappati via. Alcuni, non avendo dove andare, resistono come spettri in una terra abbandonata, dove perfino quel po' di manioca che riescono a produrre giace invenduta nei cortili polverosi.

Chi ha guadagnato con questo progetto e' gia' scomparso da tempo, e ora investe in altre regioni, nella speranza di ripetere il colpo grosso. Sono le compagnie del legno indonesiane, malesi e cinesi, create dai potenti amici dell'ex dittatore Suharto. Si sono aggiudicate i diritti per la rimozione del legname nelle aree di "bonifica". Nessuna necessita' di piani di gestione, nessuna regola, se non quella di portare via il massimo nel piu' breve tempo possibile. E così tonnellate di meranti e ramino hanno fatto rotta verso i mercati italiani e europei.

"Ho spiegato ai funzionari del governo che il Mega Rice Prject non avrebbe funzionato. Non poteva funzionare - dice il professor Suwido Limin, della'Universita' di Palangka Raya - Non poteva, perche' il suolo e' povero, e il fondo sabbioso drena quel po' di i nutrienti generati bruciando la torba. Ma non mi hanno dato ascolto. Ora riparare i danni e' un processo lungo e costoso."
Con un piccolo gruppo di persone legate all'universita' lavora con i pochi contadini rimasti ostaggio della torba, e tenta di restaurare le foreste devastate. Assieme hanno costruito dighe per bloccare i canali di drenaggio, per restituire a quei campi sventurati l'acqua e la vita. Assieme hanno organizzato squadre di pompieri volontari per contrastare gli incendi. E hanno piantato alberi che proteggessero il suolo dal sole facendone un vettore delle fiamme. Ma e' un processo lento, costoso, faticoso. e' una lotta contro il tempo e contro il fuoco che funesta la regione.

Le immense fortune accumulate dai baroni del legno oggi non basterebbe a coprire un centesimo dei costi di riabilitazione. e' stata un'autentica guerra di saccheggio, così come e' una guerra di saccheggio l'espansione delle piantagioni di acacia e di palma da olio su terreni tanto ricchi di vita quanto poveri di nutrienti. Ma tra le pieghe della devastazione questi universitari contadini hanno preservato tesori inestimabili. Ciscius mi porta in una foresta protetta da un progetto congiunto con l'Hokkaido Institute. Una foresta protetta con la scusa di studi meteorologici. Una scusa neppure troppo sfacciata, dato che le principali ricerche sulle emissioni delle torbiere tropicali si svolgono proprio nella piccola capanna nel cuore di questa foresta. Ed e' qui che, arrampicandomi su una torre di avvistamento, ho il mio primo faccia a faccia con un orango. Anzi due, una mamma col piccolo. Un presagio? Non so, a me sembra tale.



Questo viaggio nel tempo, questo passato consumato, questo futuro di devastazione e' ora una promessa di speranza. Un team di esperti dell'universita' di Palangka Raya verra' a Sumatra per aiutarci a costruire dighe nei canali di drenaggio, e a impedire che il passato si ripeta. Perche' c'e' sempre il tempo per le scelte.

giovedì 30 agosto 2007

Palude della desolazione



Palude della desolazione, 30 agosto. Un campo di stoppie bruciate non e' la piu' allegra delle immagini. La puzza di bruciato, gli steli sporchi di carbone, la polvere. Ma una foresta palustre bruciata e' un'immagine incomparabilmente orribile.
Una distesa di nero fango putrescente e cenere, da cui affiorano come ossa scarnificate, brandelli di tronchi e rami bruciacchiati, in parte ancora neri dal fuoco, in parte sbiancati dal sole e dalle piogge. Un inferno esteso per chilometri fino all'orizzonte, dove ancora resiste compatta la muraglia della foresta, un nastro azzurro da cui affiora il suono delle motoseghe in azione.

Camminare in questo pantano e' complicato. I piedi affondano in una mota soffice e senza fondo, ma abbastanza elastica da richiudertisi sui sandali e succhiarteli nei suoi recessi profondi. L'unico modo e' cercar di camminare in equilibrio suiu rametti affioranti o sui tronchi abbattuti. Perfino dove e' secco, il fuoco ha bruciato la torba sotto la superficie, scavando voragini che fanno cedere il terreno come una sottile crosta di pasta frolla. E' un marciare lento e incespicante su un terreno che non sai se c'e' o e' pura immagine.

L'aria attorno e' silenziosa, Non ci sono uccelli, ne' rane, ne' grilli, non c'e' il frastuono della foresta. C'e' silenzio. Di lontano arriva il richiamo di un predatore, ma non ci sono piu' predi qui attorno. E se ne vola via.

Il ciclo della vita si e' spezzato, anzi e' sprofondato nella palude e succhiato via con l'acqua che i canali drenano costantemente dalla torbiera per prosciugarla.Via l'acqua, via la vita. E si fa spazio al fuoco.
E' un fuoco che non si puo' spegnere, che marcia invisibile, sbucando all'improvviso contro il cielo. E quando lo vedi e' troppo tardi. Tonnellate di torba bruciano sottotraccia, passando perfino al di sotto dei canali di drenaggio, scavano gallerie incontrollate che si estendono per chilometri e chilometri, per poi riemergere all'improvviso in un macabro festino di tronchi e ceppaie in fiamme. Tigri, elefanti, oranghi, e le migliaia di specie animali e vegetali cedono il posto all'ordinata schiera di palme da olio, fino a quando l'ultimo albero sara' abbattuto, l'ultima foresta trasformata in un silenzioso inferno.

In lontananza, offuscati dalla polvere, alcuni automezzi arancioni dragano il fondo del canale di drenaggio. Sull'acqua di torba, nera come caffe', ondeggiano lente file di tronchi uniti tra loro da assicelle inchiodate. Serviranno a tirar via questo triste treno, destinato al mercato internazionale del meranti e del ramino.

Come in un triste presagio, quando torniamo all'approdo troviamo la barca inclinata sul fianco. La marea e' calata e il fiume ha ripreso a scorrere verso la foce. Bisogna aspettare sotto il sole che l'acqua risalga, senza neppure il sollievo di un bagno nel fiume: in questo punto i coccodrilli pare che scorrazzino a schiere. E allora pazienza. E sottomissione alla dittatura dei cicli naturali, fino quando non saranno estirpati una volta per tutte dalla faccia della terra. Ma quello, per quanto vicino, e' ancora un altro giorno. E un brandello di futuro e' ancora nelle nostre mani.

giovedì 23 agosto 2007

Pekanbaru


Pekanbaru, capitale di Riau (Provincia orientale di Sumatra), 23 agosto. I cartelli ai bordi delle strade anninciano al mondo una nuova era. Il Governatore della provincia e' raffigurato in posa statuaria assieme al Presidente della Repubblica, sorridente davanti a sterminate piantagioni di palma da olio. E' l'ideologia della nuova frontiera, la nuova corsa all'oro e' iniziata, avventurieri e disperati accorrono per raccogliere denaro contante e speranze nate morte. Giganteschi alberghi di lusso costeggiano le strade. Sfoggiano marmi e cristalli, ma l'acqua non esce dai rubinetti, e i tappeti, appena messi, cominciano già marcire. Questa volta pero' la foresta non riuscira' a prendersi la sua rivincita, occupando di nuovo gli spazi sottrattigli. Semplicemente perche' qui, ormai, la foresta non c'e' piu'. E' stata ormai sradicata da tempo. Pekambaru e' solo una tappa, e l'epicentro della nuova corsa, ma la frontiera si e' ormai spostata lontano. E piu' che una frontiera e' un piccolo arcipelago di isolette circondate dalle ruspe. E la marcia continua. "The Golden Crop" reclamizza la televisione di stato, il raccolto d'oro. Ma e' oro di cattiva fusione, fatto di carbonio che se ne va per l'atmosfera. Infatti l'espansione delle piantagioni ha un target ben preciso: le terre non "produttive". Ossia, le foreste palustri.

Peccato che queste foreste, oltre ad ospitare una biodiversita' unica, covano una ricchezza immensa per il pianeta: la torba. Per millenni il materiale organico delle foreste palustri si e' accumulato sul suolo, creando uno strato di torba che va dai due ai venti metri e piu'. E' di uno dei piu' grandi serbatoi di carbonio del pianeta. Circa 550 miliardi di tonnellate di carbonio sono sequestrate nelle torbiere di tutto il mondo, circa il 75% di tutto il carbonio presente nell'atmosfera, o l'equivalente delle emissioni globali di carbonio in circa 70 anni. La torba e' zuppa di acqua. ma quando viene bruciata o seccata, viene a contatto con l'ossigeno e si decompone, a rilasciando carbonio in atmosfera. E danni saranno altri a pagarli. Dei 27,1 milioni di ettari di foreste palustri del Sud-est asiatico, 12 milioni sono già stati deforestati e in gran parte drenati. Un terzo delle torbiere si trova nei tropici, e di questo il 60% si trova proprio in Indonesia: 22,5 milioni di ettari di torbiere, ma il volto sorridente del Governatore non lascia dubbi: l'assalto e' gia' cominciato.

lunedì 13 agosto 2007

Piantagioni sterminate

Kuala Lampur, 13 agosto. Poco prima di atterrare all'aeroporto di Kuola Lampur dove l'aereo fa scalo, un'eneorme impianto industriale scorre sotto il veicolo. Ha tutta l'apparenza di una raffineria, ma senza i segni che in gerenere accompagnano queste strutture: i fuochi che in cima ai pinnacoli delle ciminiere, il fumo nero, i segni inconfondibili che il petrolio lascia attorno a se'. No, qui si raffina altro, e la risposta e' distesa tutta attorno: palme da olio. Un'unica distesa per chilometri e chilometri, si estende fino a perdersi nell'azzurro dell'orizzonte. Come un pattern riprodotto da un computer, quadrati di pixel verdi tutti uguali e se stessi si riproducono uno in fila al''altro, come soldatini di un esercito digitale , divisi da strade e canali accuratamente regolari, come un infinito gioco di specchi dominato da un supremo ordine di perfezionismo.

Non so, non posso sapere cosa c'era qui un tempo. Foresta pluviale di pianura? Foresta palustre? Torbiere?
Ma non so neppure cosa c'e' adesso, questo nulla verde riprodotto all'infinito, e in continua, progressiva espansione. Una espansione che continuera' fino a quando ci sara' terra da erodere, foreste da abbattere, mercati da saturare. Che sia per produrre panettoni e merendine, oppure saponi, dentifrici, saponi e rossetti, o per l'ultima onda del massacro energetico: il biodiesel. La Malesia è il gigante mondiale dell'olio di palma, ma l'Indonesia mira a strapparle il primato. Assieme controllano oltre il 70 per cento del mercato. Intanto la richiesta di olio di palma cresce senza fermarsi. Banche e azionisti investono nella commodity del futuro, nuove societa' nascono, si fondono, fanno accordi. Linee vengono tracciate sulla carta geografica, per smembrare foreste e terre indigene native in concessioni di piantagione. La corsa al petrolio verde e' appena cominciata, e gia' corre a piena velocita' di marcia, come normale nella nuova economia. E nulla sembra poter fermare questo enorme schiacciasassi, neppure l'orizzonte grigioazzurro in cui si perde il ripetersi dei quadrati verdi.