lunedì 29 marzo 2010

L’uomo della foresta


La fragile struttura di metallo oscilla a ogni gradino. La scala pioli sale lungo la torre per sessanta metri. Dal suolo le carnivore colorate e le piccole palme di sago si fanno sempre più piccole, fino a profondare nel buio, man mano che gradino dopo gradino la luce inizia a penetrare fra le fronde degli alberi e compaiono i rimi pezzi di cielo. In cima alla torre vigilano silenziosi i macchinari per le rilevazioni atmosferiche e lo studio dei gas rilasciati dalla foresta.
Un rumore secco vibra nell’aria, come un tronco vuoto percosso. Poi un muoversi di fronde. Accelero la salita, le mani sudate scivolano sul metallo umido, ma arrivo in temo all’appuntamento: due alberi più in la si affacciano due oranghi, una madre con un piccolo. Siamo alla stessa altezza, faccia a faccia. Loro su un ramo di ditperocarpa, io sul mio albero artificiale di metallo. Mi guardano con una curiosità celata da apparente disinteresse: che ci fa questo estraneo nel loro territorio? È uno sguardo indulgente, da vecchio saggio. Che ha visto tante storie, tante intemperanze, e ora guarda alla vita degli umani con pietoso distacco.
Oscillano tra i rami senza fretta, poi, realizzato che non succede niente, oscillano mollemente sulle lunghe braccia. Smetto di sperticarmi verso il vuoto e riprendo a salire mentre l’oscillare dei rami si allontana lentamente.

Orango in realtà significa uomo. Il nome vero è orang-utan, che in malay significa uomo della foresta. E per millenni questi uomini delle foreste hanno abitato pacificamente le loro foreste. Ma poi gli uomini delle città hanno cominciato ad abbattere le loro foreste, e i pacifici oranghi si sono ritirati, e poi ritirati ancora man mano le motoseghe avanzavano. Ora stanno per estinguersi, come tutti gli altri parenti dell’uomo: gorilla, scimpanzè, bonobo. Gli scalini scorrono uno dopo l’altro. Quanti ne restano ancora? Quanti anni restano agli oranghi prima di sparire per sempre? Quando arrivo in cima alla torre, la vegetazione è completamente diversa. Al nero macchiato di verde scuro e marrone si sostituisce un tappeto di fronde verde chiaro, quasi argentato, appena ingrigito dall’umidità verso l’orizzonte. Il sole picchia diretto e brucia sulla pelle quassù. Da sopra vedo i due oranghi allontanarsi lentamente, come due ragnetti rossi, allungandosi con le braccia, di ramo in ramo.
Verso ovest il mare di foresta si stende all’infinito, fino a sciogliersi nel cielo. Ma a est dopo qualche chilometro la foresta s’interrompe brutalmente lasciando posto a un deserto costellato di tronchi secchi. È l’inarrestabile avanzata della civiltà.