lunedì 22 settembre 2008

Bosco sacro

Da Foreste
Notte. La processione avanza nella foresta. I sacerdoti danzando battendo il ritmo. Le donne, ghirlande di fiori nei capelli e fiaccole alla mano invocano alla Dea fertilità e elevano misteriose e terribili preghiere, il cui significato si è perso nel tempo. La dea è presente, ne percepiscono i passi tra le le fronde buie. O forse sono animali notturni, che osservano con attenzione lo strano corteo. Ma non fa differenza, gli animali selvatici sono la dea e la dea sono gli animali. Sanno che oggi, in onore alla dea, non la caccia è bandita, nessuno li importunerà.
La foresta respira, trasuda, vibra. Saranno le presenze appena percepibili nel buio, saranno quelle parole arcaiche pronunciate con voce densa, saranno i desideri, i voti, gli auspici. E' la foresta madre, e al tempo stesso ribelle e misteriosa, come il mito stesso della terra.
Non bisogna attraversare gli oceani per trovare foreste magiche. Siamo a pochi passi da Roma, quasi alla sua periferia, e ancora vive il Bosco sacro di Nemi, disteso attrono al lago sacro alla dea. Il potere di questo luogo era grande. La Via Sacra, l'arteria principale del Foro Romano, quella in cui fluivano processioni d'inizio anno, feste sacre e trionfi, punta dritta al Bosco di Nemi, centro religioso di cui Roma era una semplice periferia.
Il Bosco sacro allora si estendeva su tutti i colli Albani, una selva di querce e di lecci che aveva illago come epicentro, il Sacro Specchio di Diana.
Diana Nemorensis (Diana del bosco) era la dea delle foreste. Era Artemide, il mistero delle selve, l'imprendibile dea della natura selvaggia. E non accettava violazioni. Quando il principe tebano Atteone la spiò farsi il bagno nuda, Artemide non perdonò la profanazione, e lo condannò alla pena del contrapasso del cacciatore: lo trasformò in cervo. Il tronfio principe provò cosa vuol dire essere braccati dai cani, e lo sbranarono quegli stessi cani da lui addestrati ad uccidere.
Artemide, la vendetta delle selvaggine, in questo bosco era onorata come Diana, Lucina ed Ecate (e perfino come Iside)
Protetta da Diana, in questo bosco sacro aveva vissuto la ninfa Egeria. Era onorata, e in tanti si recavano fin qui per ascoltare i suoi vaticini, ma non viveva in palazzi o in templi, perchè la sua casa era la foresta.
Egeria, ispiratrice e sposa del secondo re di Roma, Numa Pompilio. Quando lo sposo morì, Egeria, cui non era dato seguirlo, si sciogliesse in lacrime nel suo bosco, finché Diana, impietosita dal suo dolore, la trasformò in una fonte, una sorgente sgorgava dalle rocce per scendere con cascatelle nel lago.
Oggi Diana Nemorense non regna più su questa regione, e pochi hanno occhi per vedere le lacrime di Egeria confluire nel Sacro Specchio della Dea.
Ma Artemide-Diana è ancora qui, in questo bosco ridotto al cratere, violato dalle ville che hanno strangolato il lago, dalle strade e dai campi recintati.
Artemide tiene ancora qui le sue feste. Non ci sono sacerdoti, né fanciulle coronate di fiori. Ci sono solo loro, gli animali del bosco, i pochi sopravvissuti: ghiri, moscardini, lepri, talpe, arvicole, conigli, donnola, faina, puzzole, volpi ed tassi.
Non è una festa maestosa, come forse l'immaginavano i latini. Da sopra le rupi in tufo arrivano i rumori di una periferia tronfia e sguaiata. Un furgoncino smarmittato, una fresa di ferro, il rantolo di una motosega. Gli antichi canti sono note mute aggrappate alle rocce, le invocazioni misteriose sono dimenticate. Eppure l'antica dea è qui, negli alberi, nelle foglie, nel fremito degli animali. I suoi piedi nudi calpestano sacchetti di plastica e cocci di bottiglia, i resti abbandonati di uno scavo archeologico. Nella sua terra più antica, Artemide si accampa come un'immigrata clandestina. Violata, umiliata, costretta a subire in silenzio ogni profanazione, Artemide non reagisce più con punizioni esemplari. Sa, la dea decaduta, che questi umani sordi al suo potere, si getteranno da soli nella trappola di Atteone. Si faranno sbranare dai loro stessi cani. E allora le selve ricresceranno attorno alla dea. Con la pazienza dei secoli che verranno.