martedì 30 ottobre 2007

Kris Yoyo




Kuala Cenaku, 30 ottobre 2007. Kris Yoyo e' ingegnere sul campo. Corpo adulto e occhi da bambino, Kris sembra un attore, ma il suo mestiere e' un altro. Kris costruisce dighe, organizza pattuglie contro il talgio illegale, lavora alla brigata volontaria antincendi della sua regione, in Kalimantan.
Kris nuoa come una lontra tra i pali conficcati nel canale. Tiene il metro in una mano, la sigaretta nell'altra, e non bagna mai nessuno dei due. Misura, da' indicazioni alla scuadra di lavoro, aggiusta le distanze tra le assi, controlla che tutto funzioni come deve. E lavora assieme agli altri, non ha problemi a sporcarsi le mani, ne' si stanca, perche' Kris e' ingegnere sul campo. La sua universita' e' stata la foresta, la sua facolta' il taglio illegale.

Quanti alberi avra' abbattuto? Nessuno puo' dirlo, certamente migliaia. E senza un rimpianto. Dopo le superiori non c'era modo di frequantare l'universita', e Kris si e' cercato un lavoro. Il lavoro a disposizione era il tagliaboschi. Su duemila abitanti nella sua comuita', trecento erano tagliaboschi. E ris e' diventato tagliaboschi. Lavorava con la sua squadra, due ore di lavoro, e un albero andava giu, due ore, e un altro albero. E cosi' per intere settimane, e poi per altre settimane a portar via i tronchi. Una ventina di Euro (300.000 Rupie) per un tronco di ramino che in Europa veniva venduto per migliaia di Euro, ma in buona parte finivano nelle tasche degli intermediari, i baroni del ramino, che gestivano i canali e affittavano le motoseghe. Una volta scavato il canale, il barone si assicurava il controllo della foresta circostante. La legge del fatto compiuto.

Dal 2003 Kris fa un lavoro diverso. Organizza le unità di pattuglia contro il legno illegale, un progetto che invece di mobilitare la polizia, comunque corrotta, ha coinvolto le comunita' locali. E chi sa meglio come combattere il legno illegale, se non chi ci e' passato?

Ora Kris e' contento. A volte i suoi ex colleghi lo mettono in mezzo, si prendono gioco di lui, ma lui tira dritto. Sa che che oltra a un lavoro ha anche uno scopo.

lunedì 29 ottobre 2007

Il salto della nave



Kuala Cenaku, 29 ottobre 2007. Il sole si alza dietro agli alberi. Una coppia di buceri saluta la giornata sorvolando a grandi falcate la piccola squadra di magliette arancione chiazzate di fango: "Tim Pembendung Kanal - Damming Crew". Ma nessuno indossa i guanti zuppi, c'e' qualcosa che non quadra: dall'altro lato della diga, ancora in costruzione e' posteggiato un lungo battello, di una decina di metri e passa. Fermo, come a un semaforo sempre rosso.
No, questa davvero non ce l'aspettavamo. Che ci fa un'imbarcazione di quella portata in un canale di drenaggio?
Dalla barca escono un uomo e una donna, e dietro la il tendone fanno capolino tre bambini. I vestiti sono stracci scoloriti, i volti portano il peso di rassegnati, abituati a vagare sul fango se su fatiche grandi.
Uno scambio di sigarette e di parole, ed esce una nuova storia. Abitavano nella foresta, pescando, coltivando un po' di manioca in un fazzoletto di terra. Poi sono arrivati gli impiegati della compagnia e gli hanno detto di andarsene. Così, da un giorno all'altro. Hanno messo le loro poche cose sulla barca-casa, e si sono avviati. Ma nessuno gli aveva detto che il canale era chiuso. Ora aspettano, con la pazienza di chi non ha alternative.

Che si fa? Di smontare il canale non se ne parla, e poi i pali sono ormai profondamente conficcati nel terreno, non mollerebbero mai la presa. No, la soluzione e' solo una: costruire uno scivolo per la barca, sopra la diga. E poi tirare, tirare, con tutta la forza possibile.
Mentre costruiamo lo scivolo la marea lentamente sale. L'acqua inverte la marcia e fluisce dal fiume, riempiendo il canale. La barca poco a poco si solleva. Quando iniziamo a tirare tutte le corde con cui abbiamo imbragato al nave, sembra una scena surreale, a meta' tra Frizcarraldo e un kolossal sulle piramidi egiziane. Ma e' tutto vero. Alla fine l'imbarcazione si arrampica in cima alla diga e si tuffa pigramente dall'altra parte, immergendosi senza danni apparenti.
"Selamat tinggal, Pak" arrivederci zio. Due braccia si agitano nell'aria, sulla barca che si allontana, mentre nuove travi continuano ad impilarsi sulla diga in costruzione.

domenica 28 ottobre 2007

Arriva la polizia



Kuala Cenaku, 28 ottobre 2007.
Sono venuti nel pomeriggio al campo, apparentemente una visita di cortesia. Poche divise, molti abiti in borghese. Ma tanti. Uno dopo l'altro entrati dal viottolo che porta al fiume. Uno dopo l'altro, ventidue poliziotti venuti da Kuala Cenacu, Rengat, Pekambaru. E hanno intimato a tutti gli stranieri di lasciare il campo. E infatti la presenza degli stranieri significa attenzione internazionale e pressione politica, atorno a cui si sviluppano leggende di spie e faccendieri: ogni straniero qui e' potenzialmente un agente segreto.
Ma il clima e' disteso, non c'e' tensione, almeno non ancora. Due dei nostri si siedono sotto un tendone con i ventidue rappresentanti dell'ordine, e inizia una lunga trattativa, intervallata da te', caffe' e sigarette. Alla fine rinunciano a portarsi via gli stranieri, e decidono di lasciare il campo. Ma due di loro resteranno con noi, per nostra protezione, ci dicono. E così due poliziotti si apprestano a risiedere in pianta stabile al Forest Defenders Camp. Ma non resteranno a lungo: una sera di fronte al fuoco e le leggende sugli uomini-tigre che infestano questo lembo di terra bastano a fargli cambiare idea. Di buon mattino si avviano verso il fiume per non farsi piu' vedere.
Beh, essere salvati dall'uomo-tigre e' pur sempre un'esperienza non comune.

mercoledì 24 ottobre 2007

Ritorno a Kuala Cenaku



Kuala Cenaku, Sumatra
Un gruppo di bambini siede abbarbicato sul piccolo molo traballante e osserva le operazioni di carico dei gommoni. I motori richiedono una revisione, e il sole e' gia' alto quando vengono mollate le cime. Il fiume continua a scorrere contro corrente col suo carico di giacinti d'acqua, lentamente. Sembra che il tempo scorra seguendo ritmi antichi. A volte si arriva in mezzora, a volte in due ore. A volte quando capita.
Appena attraccato iniziamo a scaricare l'attrezzatura portata dal Kalimantan, e subito iniziamo a testare il terreno. Kitzo maneggia gli strumenti con cura. Semplici pezzi di ferro robusto, ma ingegnosamente messi assieme. La perforatrice per i carotaggi non e' che una specie di grosso coltello che si avvita a un manico di ferro. Ne risulta una sorta di alabarda che viene conficcata con forza nel terreno, fino a quando non e' completamente affondata nella torba. Se non affonda perche' incontra una radice si cambia punto e si ricomincia da capo. Se si raggiunge il fondo bisogna svitare e aggiungere una prolunga, quindi si torna a spingere. Metro dopo metro, la perforatrice continua ad affondare, fino a quando non arriva al suolo minerale. A questo punto la perforatrice viene girata su se' stessa, e una faccia del "coltello" si sfoglia come la pagina di un libro, catturando una perfetta carota di suolo. A quel punto basta tirare su tutto quanto e misurare.
In ogni foro nel terreno viene piantato un tubo di plastica bloccato sul fondo e perforato ogni dieci centimetri con un chiodo rovente. L'acqua che impregna la torba entra nel tubo dai piccoli fori, e il tubo si riempie consentendo facilmente di misurare il livello dell'acqua nel terreno.

Ogni cinquecento metri, un nuovo foro. Ai margini della piantagione registriamo quasi cinque metri e mezzo di torba, molto di piu' di quanto consentito dalla legge. Mano a mano che si va verso il centro della piantagione, lo spessore della torba aumenta, fino a essere piu' profondo della perforatrice con tutte le prolunghe montate: otto metri. Siamo una maschera di fango nero e viscido, appena allungato dalla pioggia che da qualcue ora ha iniziato a inzupparci.

Ma la profondita' dell'acqua non supera il metro e mezzo. La torba e' ancora umida. Ma il canale a un passo da noi continua a trascinare via acqua. "Se il drenaggio viene fermato subito, qui siamo ancora in tempo - commenta Kitso - Ma se aspettiamo cinque anni sara' troppo tardi. Come la' da noi, in Kalimantan". La foresta e' stata ormai abbattuta, almeno da questo lato, ma il suolo e' ancora vivo. Ai nostri piedi un vivace torrente di acqua nera e spumosa se ne va verso il fiume con l'acqua drenata dai canali. Stavolta possiamo fare ancora qualcosa. Vale la pena di tentare, anche se qualcuno si arrabbiera'.

Sulla via del ritorno la pioggia continua a battere il fiume. L'aria si e' fatta fredda, e sulle acque ancora tiepide si formano batuffoli di nebbiolina. Un paesaggio magico e surreale, che sembra venire da altri mondi.

martedì 23 ottobre 2007

Sul fiume


Kualacenaku, 29 agosto. La piccola barca da pesca si avvia faticosamente. Il motore di fabbricazione cinese deve essere stato piu' e piu' volte modificato. Ora e' un insieme di ammaccate pentole tenute assieme con lo spago. Quando alla fine riesce a partire, fa un baccano del diavolo, sputando gorghi di fumo nero e schizzi d'acqua ogni volta che si incanta. Teres tiene con un piede la corda legata alla leva di accensione, e con l'altro un bastone legato all'acceleratore. Mentre il motore sussulta in preda alle convulsioni, la barca scivola sul fiume leggera.
Lungo il fiume donne che lavano i panni e uomini che fanno toletta, piu' di rado qualche pescatore. Ciuffi di giacinti d'acqua corrono speditamente verso la sorgente come se risalissero la corrente, allungando i loro colli di cigni con eleganza desueta. In realta' e' la corrente a risalire il fiume, spinta dalla marea montante a decine di chilometri di qui. E la mare ci porta lungo il fiume verso le concessioni di palma da olio.

Sulla via


Pekanbaru, 26 agosto. Cerco di ricordami di quel poster, quando sono sul pullman. Il finestrino e' il retroscena di quella pubblicita', l'altra faccia della stessa macchina: guadagni per pochi, distruzione e miseria per tutti gli altri. In realta' non e' un pullman, e' un semplice furgoncino. Ma ha gli stessi passeggeri di un pullman, e ogni volta che prende velocita', cioe' sempre, bascula come una valigia a rotelle troppo carica, schivando di un pelo autocarri e biciclette. Ma sono ormai quasi cinque ore che sfreccia tutta velocita', e il panorama ai bordi della strada e' sempre lo stesso: palme, palme, palme. Ogni tanto un brandello di foresta, ogni tanto un campo di riso, ogni tanto un'area spianata da cui emergono come neri artigli i ceppi bruciati degli alberi abbattuti. E' uno scenario che si ripete senza finire mai, impossibile credere che na ventina di anni fa qui c'erano grandi foreste. Eppure e' cosi'. Poi sono arrivate le prime piantagioni di gomma, poi il taglio a raso su vasta scala e le piantagioni di acacia, e alla fine e' ecco la palma da olio.

Man mano che il pullmino divora la strada, le aree bruciate si fanno piu' estese. E i risultati si vedono: gli incendi diffusi in Indonesia nel 1997 hanno rilasciato oltre 2,57 miliardi di tonnellate di carbonio. Da allora, ad ogni stagione asciutta, migliaia di incendi hanno rilasciato ogni anno tra i 0,39 e i 1,18 miliardi di tonnellate di carbonio. Queste emissioni sono destinate a crescere parallelamente alla conversione delle foreste palustri in piantagioni di palma da olio.
E questo e' facile da dire. Ma vederlo con i tuoi occhi fa un effetto diverso. Fuori dal finestrino scorre per chilometri un brullo campo di terra abbrustolita, sempre uguale a se' stessa. Alla fine ti appisoli, e quando una buca di sveglia con un sussulto, non sai quanto tempo dopo, il campo e' ancora li, che scorre come un nastro incantato. Un nastro che scorre, scorre, scorre, fino al villaggio di Kualacenaku. La frontiera della foresta e' arrivata qui, con la sua organizzazione di motoseghe, ruspe e canali.

Kualacenaku


Kualacenaku, 28 agosto. Il villaggio e' un gruppo di casette e capanne stretto fra il fiume e la strada. Camion sfrecciano tra i bambini che giocano, portando petrolio, olio, frutti di palma. Non e' da ieri che la gente di Kualacenaku si batte contro le grandi compagnie. Una decina di anni fa sono riusciti a cacciare via una grande impresa che si era impossessata delle loro terre. Ora se ne e' presentata un'altra, Duta Palma si chiama, e mostra di aver imparato la lezione: in men che non si dica ha deforestato, scavato canali, drenato e messo a coltivazione una buona parte delle terre comunitarie. E' la politica del fatto compiuto. Ma non si ferma qui. I macchinari continuano ad avanzare, mangiando ogni giorno nuove fette di foresta. In mano ha un permesso di concessione rilasciato dal governo provinciale. Una recente investigazione della polizia della provincia di Riau ha dimostrato come gran parte dei permessi nella regione siano stati rilasciati in modo illegale, ma Duta Palma non si preoccupa: ha gia' travalicato i limiti della concessione assegnata, e continua a spingersi avanti, come se dovesse raggiungere i confini del cielo. E' verso questi confini che andiamo.

lunedì 22 ottobre 2007

Sulle dighe



Kuala Cenaku, 22 ottobre 2007. Ci si alza tutti prima dell'alba. Non e' il freddo, qui anche la pioggia e' calda, ma indossare appena svegliati i vestiti fradici di fango del giorno prima non e' una cosa piacevole. Eppure e' saggio: meglio tenere la maglia asciutta per la sera, quando torneremo al campo distrutti di stanchezza.
Imprecando, i piedi rientrano negli stivali di gomma, le vesciche strillano, le dita slogate protestano, le ossa sono ammaccate, ma il caffe' e' caldo, e ti rimette sempre su. Un altro giorno di lavoro duro, al canale di drenaggio. A trascinare travi e sacchi di sabbia, a scavare immersi nell'acqua fino al collo, a piantar travi nella torba col bum-bum, il gigantesco martello fatto con una sezione di tronco.
Nessuno pensava che fosse semplice costruire dighe sui canali. No, nessuno lo pensava, ma ora il corpo si ribella. I piedi scivolano sulle passerelle che a mala pena affiorano sul mare di fango, le mani perdono la presa sulle travi irte di schegge, gli attrezzi scivolano. Non e' che dentro una sauna finlandese ti verrebbe proprio voglia di darti ai lavori pesanti.
Ma colpo dopo colpo, uno dopo l'altro i tronchi penetrano nella torba per uno, due, tre metri. E una dopo l'altra, file di tronchi creano uno sbarramento all'acqua. Sacco dopo sacco, le file di tronchi si riempiono di sabbia, uno sbarramento fatto per durare, almeno fino a quando la foresta sara' ricresciuta, e sara' lei a prendersi cura del canale e a regolare il flusso dell'acqua.



Quando l'ultimo palo viene conficcato e i sacchi di sabbia iniziano a riempire il fondo del canale, il livello dell'acqua si alza a vista d'occhio. La torba succhia l'acqua man mano che sale, si riempie, si gonfia, prepara nuova vita.
Ai margini della piantagione, tra i tizzoni carbonizzati abbiamo trovato giovani piante di meranti, duriam, garcinia e bintangor: segno che la vita e' ancora disposta a tornare su questa terra, se torna l'acqua. Ogni anno milioni investiti in piani di riforestazione se ne vanno in fumo su un suolo ormai compromesso, su una torba ormai disseccata. E allora, perche' aspettare? Agire subito, per non avere rimpianti domani. A un chilometro di qui abbiamo scovato una popolazione di gibboni, confinati dall'avanzata delle ruspe in un fazzolettino di foresta residua. Di sicuro non se la passano bene, ma se la foresta tornera' ad espandersi, si cureranno loro di ripopolarla.