martedì 13 aprile 2004



Libongo, 13 aprile 2004. Dall'altra parte del fiume ci aspetta l'inferno di Libongo. Attraversiamo di nuovo il fiume su una piccola piroga stracarica. Ogni oscillazione del rematore porta il bordo della piroga sul pelo dell'acqua, e non e' facile mantenere il fragile equilibrio: un movimento sbagliato di uno di noi, e si finisce tutti in acqua a sguazzare coi coccodrilli. Appena sbarcati a Libongo si ricomincia a sudare come fontane. E si continua a sudare mentre si discute di nuovo con l'ufficiale doganale che pretende il suo denaro. Chiedere una ricevuta del pagamento, serve solo a provocare nuove minacce: "se fate complicazioni per un problema cosi' piccolo, cosa fate se vi capita un grosso problema? Perche' i grossi problemi capitano, eh si'..." Lasciamo perdere la ricevuta e ritroviamo la liberta'. Immaginiamo i problemi che capitano ogni giorno alla gente comune, quella che non puo' ha i soldi per pagare.

Ci rechiamo alla segheria e tentiamo almeno di parlare con qualcuno della direzione, ma e' sabato, e per giunta il messaggio radio con cui avevamo annunciato il nostro arrivo sembra scomparso: nessuno l'ha ricevuto. Uno stato maggiore dall'aspetto piuttosto rude ci scruta con attenzione. Sara' meglio cambiare aria? Parliamo allora con alcuni lavoratori, ma al di fuori della segheria. Ci raccontano delle dure condizioni di lavoro, della frequenza degli incidenti, in seguito ai quali i lavoratori vengono abbandonati a se stessi.

Poi ci rechiamo dal capo del villaggio, per chiedere come sono le relazioni con la Sefac. Anche qui la gente del luogo lamenta l'insufficienza di assunzioni tra la gente del luogo, soprattutto per i lavori meglio pagati. Diversi accordi non sono stati mantenuti, progetti promessi e mai realizzati. Inutile aggiungere che i pochi servizi sanitari, gestiti dalla compagnia, sono a prezzo di mercato. Gli stessi lavoratori lamentano come l'infermiere di servizio presso il dispensario, cerchi di piazzare medicinali cari e non necessari per puro scopo di lucro.

L'ultima tappa e' il villaggio dei pigmei Baka. Ci accolgono gentili, come sempre, e ci fanno sedere sotto una tettoia di foglie di palma. Anche qui le solite storie: campi distrutti dalle ruspe, cortecce medicinali, animali e alberi di mango selvatico che spariscono dalle aree di taglio. Le ruspe spesso cancellano i sentieri dei pigmei, che si perdono nella foresta, durante i loro spostamenti migratori. Come se non bastasse, una impresa che collabora con la Sefac, organizzando safari nelle sue concessioni, ha preso possesso delle aree tradizionali di caccia dei Baka, ai quali e' ora interdetto l'accesso.

Ma non sono solo i safari a sottrarre ai pigmei le risorse tradizionali. Il bracconaggio organizzato sembra di gran lunga piu' aggressivo, ed ha un forte incentivo: la massa di lavoratori e di consumatori portati dalla Sefac in quel pezzo di mondo. Solo a Libongo ci sono ben due mercati della selvaggina. In partnership con un programma del Wwf per ridurre la caccia, la Sefac si e' impegnata a invitare dei venditori di pollame e carne bovina. Ma la gente che vive qui ci fa osservare come i prezzi del pollame in vendita siano proibitivi mentre la selvaggina costa pochi franchi. Veniamo poi a sapere che i veicoli di una impresa libanese che trasporta i tronchi per la Sefac trasporta anche la carne dalla foresta ai mercati di selvaggina, uno dei quali si tiene proprio di fronte all'entrata della segheria.



Varrebbe la pena di prendersi una decina di giorni per ispezionare i confini della concessione. Da quando ha ottenuto nuove concessioni (una delle quali aveva gia' iniziato a sfruttare illegalmente) la Sefac non e' stata piu' multata per grandi operazioni di taglio illegale. Notiamo pero' la presenza di numerosi tronchi dal diametro inferiore al minimo consentito per legge. E' un po' quello che succede in tutta la regione: in seguito ai programmi di monitoraggio, il taglio massiccio di alberi al di fuori delle concessioni e' meno frequente, e si preferisce tagliare in modo eccessivo le aree assegnate. E' egualmente illegale, ma i controlli si fanno molto piu' complessi.

I lavoratori ci confermano che quei tronchi di alberi troppo giovani non sono una eccezione. Di tanto in tanto i tronchi vengono sequestrati dalle autorita', ma poi dopo qualche giorno rientrano misteriosamente nella segheria. Sentiamo anche storie strane, come quella di un funzionario dell'ente di controllo forestale che ora lavora direttamente per la Sefac. O come quella del martello a secco (che dovrebbe confermare la legalita' di ciascun tronco da parte delle autorita' forestali) "prestato" dalle autorita' locali alla compagnia. Si tratta solo di voci, ma sono pratiche frequenti nel settore forestale del Camerun. Di certo non sarebbe la prima volta.

Rispetto agli anni passati, il taglio illegale ha cambiato alcune delle sue pratiche, ma ha anche ritrovato la propria aggressivita'. Il legame tra corruzione nell'amministrazione, compagnie prive di scrupoli e realpolitik delle diplomazie - e della Banca Mondiale sta portando allo smantellamento dei programmi di monitoraggio, mentre i tagli dei fondi di sviluppo hanno portato alla cancellazione di programmi di conservazione. Tra le organizzazioni non governative, e tra gli enti di cooperazione, regna lo sconforto, come alla vigilia di un'ultima battaglia data ormai per persa. Nelle stesse settimane, il parco nazionale di Korup e la riserva di Dja (patrimonio universale dell'Unesco) stanno per essere abbandonati per carenza di fondi: sono lasciati incustoditi, alla merce' dei bracconieri. Tanti pezzi di Africa che se ne vanno, come in un puzzle che nessuno potra' mai piu' ricostruire.

Lasciamo Libongo e ci tuffiamo di nuovo nella lunga strada della foresta. Il sole al tramonto crea tra gli alberi magici giochi di luci e ombre. Piccole scimmie nere si rincorrono sui rami, sorvegliate da grandi uccelli azzurri. Un ultimo sguardo al panorama incantevole, un pensiero ai suoi anni contati e riprendiamo la strada, prima che ci colga la notte. I tronchi continuano a correre, avvolti in un manto rosso di polvere. Promettiamo loro di incontrarli di nuovo: in Europa.

domenica 11 aprile 2004

Dzanga-Sangha



Ligiombo, 11 aprile 2004. Chi vuole passare la frontiera attraversando il fiume con la piroga, deve prima pagare la gabella a un ufficiale doganale, un ubriaco malfermo che riemerge dai fumi dell'alcol e del calore solo quando si tratta di estorcere denaro. Passata la frontiera e' il turno di altri funzionari: dentro un cubicolo di cemento, risuonano le urla di un uomo in pantofole e caffettano lilla, che vorrebbe apparire minaccioso: il capo dei gendarmi di Ligiombo, inferocito con noi perche' lui, "il capo della forza armata" del villaggio, non vede nulla dei finanziamenti che girano attorno al parco nazionale. Poi, nel dubbio, passa un quarto d'ora a copiarsi uno per uno tutti i numeri dei codici elettronici del mio passaporto. Passata anche questa scena di ordinaria burocrazia, finalmente ci si tuffa in una delle piu' belle aree di foresta del Bacino del Congo. Visitiamo le pozze salate meta di pellegrinaggio degli elefanti di foresta, le radure dove pascolano bufali, bongo e sitatunga. Camminando nella foresta incrociamo piu' volte la rotta di gruppi di elefanti, incontriamo nido di scimpanze' e osserviamo da vicino un gorilla ingozzarsi di tenere foglie e succulente termiti. Ma la Repubblica Centrafricana non gode una buona fama di sicurezza nei circuiti turistici, e siamo gli unici visitatori.
Attivi nei progetti di Wwf e di Wildlife Conservation Society si incontrano personaggi come Clohe' che passa la giornata accampata nel cuore della foresta a pedinare e studiare i gorilla, o Andrea, che conosce uno per uno gli oltre mille e cinquecento elefanti che vengono periodicamente, a fare scorta di sali. E li saluta con gioia, felice di rivederli dopo il loro peregrinare di quattro o cinque anni, felice di sapere che ce l'hanno fatta a sfuggire ai cacciatori, felice di vedere che una elefantessa e' tornata con un nuovo cucciolo. Perche' anche qui la caccia rappresenta una minaccia. I bracconieri penetrano fin nel cuore del parco, in cerca di elefanti e di gorilla. Ne intravediamo un paio, nascosti nel folto della macchia. Un'ombra che scompare nel nulla.

Ai lati del parco si estende la concessione con segheria annessa della Societe' des Bois de Bayanga, societa' in perdita, che brucia il denaro degli investitori per tagliare alberi ai margini di uno dei parchi naturali piu' belli del mondo. La poverta' della zona non lascia spazio a visioni di lungo periodo: la segheria chiudera' comunque fra qualche anno, quando avra' esaurito le proprie concessioni. Lascera' dietro di se' una scia di degrado nella foresta e tra le comunita' locali, un lascito di disoccupazione, e nuove bande di cacciatori di frodo.

martedì 6 aprile 2004

Il tramonto dei pigmei



Yokadouma, 6 aprile 2004. Facciamo colazione in un cubicolo di cemento con due tavolini trasandati e unti. Fuori una storta e sgocciolante scritta a vernice dichiara orgogliosamente "Restaurant du Luxe". Fegato di bue con cipolle e te' dolce, prima di metterci di nuovo in marcia. Da dietro il velo strappato che fa da tenda al bar, continuano a sfilare camion carichi di tronchi, avvolti nella loro lugubre mantelllo di polvere.

A un'ora di auto da Yokadouma ci fermiamo in un accampamento di pigmei Baka. Siamo presentati da un amico, ci accolgono fraternamente, ed e' sempre cosi' quando si vince la timidezza iniziale. I pigmei sono i veri abitanti della foresta, e il loro destino e' strettamente legato alla sua vita, agli alberi, alla selvaggina. Per tradizione sono raccoglitori di cibo semi-nomadi, si spostano seguendo il corso delle stagioni nelle vaste estensioni di foresta pluviale. Il villaggio che abitano ora si chiama Ntounlkuon, dal nome di un grande albero che sorge nei pressi, una specie di gigantesca zucca dalla forma bizzarra e dalle proprieta' medicinali. Le capanne sono basse, un metro circa, a forma di igloo, fatte di rami sapientemente intrecciati e coperte di foglie. L'interno e' fresco, allietato un forte profumo di miele, cera e fumo. Ci portano a vedere la loro foresta, ci spiegano l'uso delle foglie di un albero, della corteccia di un altro. E intanto ridono, ridono sempre. Come se ridere di tutto e divertirsi con niente fosse un modo per sopravvivere in un mondo che non ha piu' posto per loro.

Uno dei pigmei ci mostra come prepara una trappola. In pochi minuti ha scavato un buco in cui viene messo un complicato insieme di bastoncini che sostengono la "molla": un ramo di legno verde piegato ad arco cui e' legato il cappio. Alla prima sollecitazione la molla scatta e il cappio si stringe sulla preda. Finito il lavoro, vi mette la mano e zac... la trappola scatta . Ma sempre piu' spesso le trappole restano vuote: la distruzione della foresta e l'incremento della caccia di frodo coi fucili tolgono ai pigmei risorse alimentari necessarie. Quando la selvaggina e' esaurita, le concessioni danno fondo alle loro scorte di carne congelata. Ai pigmei non resta che nutrirsi di radici e topi.



Quando chiediamo quanti sono nel loro gruppo, ci guardano un attimo smarriti, poi iniziano a contarsi e scoprono di essere piu' o meno ventitre'. Questo rapporto molto poco "contabile" con la realta' li rende indifesi di fronte alle compagnie del legno. I pigmei conoscono i segreti della foresta, vi hanno vissuto per secoli senza distruggerla, ma sono indifesi di fronte alla matematica e al diritto. E' il caso di questo gruppo: quattro anni fa una compagnia, la Cfi, ha sfruttato la loro foresta, e come previsto dalla legge, in quell'occasione aveva incontrato le comunita' locali per concordare un prezzo. Nessuno pero', fra i pigmei, ricorda quale sia stato l'esito della riunione: si', c'era da mangiare e da bere, e tutti erano contenti, ognuno ha avuto una ciotola piena di riso, e c'era anche della carne e del sale, cosi' la compagnia ha iniziato a portare via alberi. Qualcuno ricorda che il cibo era stato dato in consegna al vicino villaggio bantu e che quando i pigmei ne avevano chiesto di piu' erano stati minacciati e picchiati. Certo, se la Cfi venisse ora, le chiederebbero almeno la costruzione di una scuola, o di un ambulatorio dove poter andare senza dover pagare. Ma la foresta ora e' gia' stata sfruttata.

Ora la compagnia e' andata via, ma prima sono partiti i grandi animali. Prima c'erano antilopi fin quasi al villaggio. Ora devono andare lontano, a giorni di cammino per cercarle, fin oltre il fiume Bonbo. E soprattutto, sono spariti molti alberi con proprieta' medicinali che i pigmei usavano per curare i bambini. Se qualcuno di loro si ammala devono portarlo all'ambulatorio del vicino villaggio di Manpa, ma poi non hanno i soldi per pagarlo, per il semplice fatto che la foresta non produce denaro. Cosi' come non vengono assunti dalle imprese del legno, perche' dovrebbero avere la carta d'identita', e nessuno di loro e' registrato all'anagrafe. I pigmei, gente di foresta, per la legge semplicemente non esistono.

I pigmei Baka nella regione del sud-est sono circa quarantamila e in questo distretto sono piu' numerosi dei bantu, anche se non li si incontra spesso perche' vivono nel profondo della foresta. Ma l'espansione dello sfruttamento forestale ha portato le operazioni di taglio del legno fin dentro i loro territori. L'opposizione dei pigmei alla distruzione del loro ambiente sembra una battaglia disperata: il governo non riconosce il loro diritto alla terra, a meno che non diventino sedentari e non si registrino. Diversi progetti di sviluppo hanno cercato di convincere i pigmei insediati piu' vicino alle strade a costruire grandi capanne quadrate, sul modello dei bantu', e a frequentare le scuole. I pigmei non dicono mai di no: hanno costruito le grandi capanne ma le hanno lasciate vuote per dormire nei loro igloo, costruiti poco piu' in la'. Alla scuola ci vanno se devono, ma appena arriva la stagione secca, inizia il viaggio verso i territori di caccia, e i pigmei scompaiono. Le scuole, per mesi, restano vuote.

I pigmei Baka non vivono isolati: da secoli scambiano prodotti e servizi con i vicini bantu, ma ora la civilta' delle motoseghe sta minacciando il loro modo di vita. Molti hanno abbandonato il nomadismo e si sono stanziati nei pressi delle strade del legno, e fenomeni quali la prostituzione, l'alcolismo e la criminalita' si stanno diffondendo rapidamente. Alcuni, spinti dalla fame, si sono ridotti a collaborare con i cacciatori, contribuendo alla morte del proprio mondo. Molti altri si sono ora ridotti a lavorare come braccianti per i bantu, in condizioni quasi servili. E' il lento tramonto di un popolo dolce e mite.

Verso Libongo
Libongo, 9 aprile 2004. La strada corre rettilinea, come tagliata con la squadra in mezzo alla foresta. Per ore l'automobile corre su un manto di pietruzze appuntite senza mai incontrare una casa o un villaggio.
Stiamo attraversando le concessioni della Sefac, la societa' dell'italiana Vasto Legno. Un vero e proprio feudo grande quanto una provincia. Questa e' una delle regioni piu' ricche di fauna: lungo la strada troviamo diverse tracce di elefanti di foresta, e non e' inusuale che si vedano gorilla attraversare la pista. Tutta l'area si trova inoltre in un punto strategico: posto in mezzo a tre importanti aree protette, dovrebbe diventare il centro di un grande parco trinazionale, un sistema che dovrebbe unire i parchi di Camerun, Repubblica Centrafricana e Congo Brazzaville. Ma intanto le operazioni di taglio vanno avanti senza rallentare, e le numerose strade, come quella su cui viaggiamo, continuano a offrire viabilita' ai cacciatori di frodo, che stanno svuotando la foresta.

Le prime capanne di pigmei, con la loro forma a igloo, ci avvertono che ci avviciniamo a Libongo. In breve ecco l'aeroporto della Sefac, poi la segheria e da ultima la cittadina.

Pochi posti al mondo appaiono tristi e miserabili come Libongo. Il caldo opprimente e umido che costeggia il fiume e' appropriato al paesaggio desolante. Baracche malmesse si accumulano ai lati di strade fatte di fango secco impastato a rifiuti. Bambini con i vestiti cadenti, tutti dello stesso color polvere, siedono per terra troppo stanchi per giocare. Vecchie che si trascinano sotto il peso di taniche d'acqua o fasci di legna, uomini seduti all'ombra a guardare il nulla.

Da questo inferno di polvere e sudore, oltre il fiume e il confine della Repubblica Centrafricana, appare una visione del paradiso, la sagoma della foresta di Dzangha-Sangha. E' Pasqua, e decidiamo di prenderci un paio di giorni vacanza e di passare il fiume, vedere com'e' una foresta prima dell'arrivo delle ruspe.

domenica 4 aprile 2004

Yokadouma, 4 aprile 2004. L'apparenza e' tutta quella di una citta' di frontiera e di traffici. Qui si incontrano Camerun, Congo Brazzaville e Repubblica Centrafricana. La citta' sembra un misto tra un crocevia carovaniero e una scenografia da selvaggio West, ma invece dei cammelli e delle carovane di pionieri, sfilano i giganteschi camion carichi di tonchi. Lo sfruttamento delle foreste ha portato qui una gran quantita' di denaro. Meta' delle tasse sulle concessioni forestali restano per legge nella regione, ma il benessere non si vede: le strade sono croste di fango, i negozi baracche stente, il mercato offre sempre gli stessi prodotti: riso, pomodori, banane verdi e frutti di palma da olio. Ma i soldi girano, e girano numerosi, nelle mani giuste. E vengono rapidamente investiti in attivita' altamente lucrative, lecite o meno. A Yokadouma si commercia tutto quel che c'e' di illegale. Innanzitutto le armi, rese disponibili in quantita' dalle guerre che sbocciano e appassiscono, ora dietro una frontiera, ora dietro l'altra. Un fucile qui e' quotato 30 dollari. E una vita umana ha circa lo stesso prezzo.

Il grande crocevia della piazza di Yocadouma, sorvegliato da un elefante di cemento, simbolo della citta', e' il passaggio obbligato per file camion carichi di tronchi provenienti dalle concessioni del sud-est e da oltre frontiera, diretti al porto di Douala. La stessa strada fa la selvaggina: carne di gorilla e di elefante, di antilope e di varano, e praticamente di tutti gli animali che vivono nella foresta, tutto si trova a poco prezzo, fresco di giornata, al mercato di Yokadouma e di molte altre citta' della regione.
Un paio di anni fa una ricerca stimava che Camerun si vendevano ogni giorno oltre di duemila chili di selvaggina, circa settanta tonnellate al mese. Oggi tutti gli osservatori sono concordi nel valutare che questo mercato sia tutt'altro che in declino. Nei mercati della capitale la carne di gorilla o elefante e' offerta a caro prezzo nei migliori ristoranti. Qui a Yokadouma invece un chilo di carne di gorilla si puo' acquistare per meno di tre euro. Vediamo mani quasi umane mozzate e vendute in macelleria: un gorilla ucciso proprio ieri, assicura la venditrice. Per l'elefante bisogna aspettare la prossima settimana, ma e' stato gia' commissionato.

Negli anni passati diverse compagnie del legno sono state direttamente coinvolte nel traffico illegale di carne di animali selvatici, rifornendo i cacciatori locali di armi, munizioni e filo di ferro per cacciare nel territorio della concessione. La selvaggina e' molto apprezzata dagli impiegati delle compagnie, e spesso e' la loro unica fonte di proteine. Il consumo locale di selvaggina e' un elemento importante nella cultura dei popoli dell'Africa centrale. Benche' in ogni villaggio si vedano capre e polli, la caccia rappresenta dal punto di vista alimentare, l'elemento principale. Gli animali domestici hanno prevalentemente una funzione simbolica, e sono utilizzati solo in occasioni particolari.



La diffusione delle operazioni forestali nel Camerun orientale ha generato una fitta rete di strade nel cuore della foresta. Queste strade sono il principale incentivo alla caccia e al commercio della carne di animali selvatici: i cacciatori penetrano nel cuore della foresta, in aree prima irraggiungibili, per uccidere grandi mammiferi e trasportarli con le auto verso i mercati di Yaounde' o Douala, dove la moda della selvaggina ha incrementato la domanda e si puo' guadagnare di piu'. Attraverso le stesse strade del legno. In diversi casi la presenza delle compagnie del legno ha creato le condizioni per la completa eliminazione dalle proprie aree di operazione di specie animali quali scimpanze', gorilla ed elefanti. I milioni investiti da organizzazioni ambientaliste e cooperazione in programmi anti-bracconaggio sembrano perdersi in risultati irrisori. Ora questo mercato, sempre piu' collegato a mafia, corruzione e protezioni altolocate, e' gestito da bande organizzate, dotate di armi pesanti, e i bracconieri minacciano chiunque si metta sulla loro strada. I gorilla, uno dopo l'altro, scompaiono, lungo le strade dei tronchi.

venerdì 2 aprile 2004


Mindorou, 2 aprile 2004. La mattina dopo ci sveglia alle cinque il canto del muezzin che chiama i musulmani alla preghiera. Si parte di nuovo per una strada tutta uguale: fango e buche, villaggi sempre piu' poveri, donne coi pesi sulla testa che camminano ai margini della strada, e camion carichi di tronchi. Siamo diretti alla segheria di Mindorou, che serve le concessioni della Alpi, un'impresa italiana nota da noi come socialmente responsabile. Alcuni mesi fa, in Italia, il direttore operativo per il Camerun ci aveva invitato a visitare le concessioni forestali di cui vantava il moderno piano di gestione. Ma quando l'ho contattato via telefono da Yaounde' per concordare la visita, ma mi ha fatto sapere che non ci avrebbero mostrato ne' le operazioni forestali ne' la segheria. Greenpeace non e' ben accetta, "siamo nemici" dice. Saremmo stati benvenuti preso gli uffici, ma la societa' non ci avrebbe aperto le proprie foreste. Bene, andiamo lo stesso, c'e' sempre qualcosa da imparare.
La prima cosa che notiamo e' il villaggio: se qualcuno crede alla leggenda dell'industria del legno che porta sviluppo e benessere alla gente del luogo, venga a Mindorou e trovera' una smentita panoramica. Un ammasso di catapecchie, qualche cubicolo in mattoni grezzi, e nessuna parvenza di attivita', a parte qualche bancarella stenta e l'agricoltura di sussistenza. Baracche di legno e fango, bambini che si trascinano annoiati nella polvere, contadini che espongono invano verdure senza clienti... Tutto tranne che un centro sviluppato, se si eccettuano, poco fuori il villaggio, le strutture della segheria e la villa del direttore con giardino.

Il direttore dello stabilimento e' cortese ma tutt'altro che entusiasta di parlare con noi. Trapela, anzi un certo nervosismo, che raggiunge il massimo quando si parla di legno illegale. Soprattutto quando chiediamo come fa la segheria di Douala a garantire la legalita' se acquista tronchi da terze parti. Allora se la prende contro 'l'inquisizione' praticata dagli osservatori indipendenti, sempre in caccia di un errore, privi di elasticita'. Infatti anche la Alpi non e' stata completamente esente da multe per taglio illegale al di fuori della concessione.
Spostiamo allora il tema sulla lotta al bracconaggio, che sta decimando le popolazioni di gorilla ed elefanti. Qui la riposta e' pronta: le strade di accesso sono controllate, entra solo chi ha il permesso. Facciamo notare che il problema e' un altro, come sempre: l'apertura di una concessione, con l'arrivo di centinaia di lavoratori da altri distretti, cresce la domanda di cibo. E la cacciagione e' gratuita. Alcune imprese per scoraggiare la caccia si sono impegnate a fornire ai lavoratori cibi surgelati a prezzo calmierato tramite dei buoni integrati allo stipendio. Ma la Alpi, ci fanno notare, non e' un ente di beneficenza. Fornisce un mezzo per andare in citta' a fare acquisti due volte al mese, che in un paese senza frigoriferi ci sembra una strategia eccellente.

Di sviluppo economico e sociale proprio non si parla. Un tempo, ci spiegano, la societa' si occupava di alcune attivita' sociali, poi con la nuova legge, che riserva meta' delle tasse alla regione di taglio, questo compito e' demandato alle autorita'. Basta guardare Mindorou, ci dicono, non c'e' sviluppo. E questo, senza dubbio, e' vero.

Ci allontaniamo un po' delusi. Una impresa, presentata in Italia come campione di responsabilita' sociale, in Camerun si limita (con qualche scivolone) a rispettare la legge. Per tutto quello che in piu' si potrebbe fare, si trincera dietro la stessa frase "non e' compito nostro, non siamo una societa' di beneficenza".

Prima di lasciare il paese, passiamo dal capo tradizionale per sentire un parere sulla presenza della compagnia a Mindorou, e qui scopriamo altre verita': nel villaggio la tensione e' alle stelle. La gente chiede lavoro, l'impresa lo nega: i locali sarebbero tutti ignoranti. Di fatto gran parte dello staff viene da altre zone. L'ignoranza e' un limite comune a molte aree dell'Africa, ma non e' un male senza rimedio. La concessione vicina impiega quasi esclusivamente mano d'opera locale, previo corso di formazione, ma evidentemente gli abitanti di Mindourou sono considerati irrecuperabili, o i corsi di formazione una "beneficenza" troppo onerosa.

L'assunzione di personale esterno alla regione, rappresenta un'occasione mancata di sviluppo e lavoro per le gente del posto, ma comporta diverse conseguenze anche piu' gravi. Innanzitutto la richiesta improvvisa di proteine che alimenta il bracconaggio, la crescita di tensione tra gente del luogo (senza lavoro, o con incarichi mal pagati) e chi viene da fuori che sbocca facilmente in conflitti tribali. L'improvvisa presenza di un numero massiccio di maschi adulti, senza adeguati programmi di prevenzione, incoraggia invece la diffusione della prostituzione e dell'AIDS.

I problemi non finiscono qui. Il cryprogil, un biocita chimico utilizzato per combattere l'insorgenza di funghi e parassiti nel legno, e' a base di PCP, un composto velenoso che spesso si associa alla diossina. Questo filtra nel terreno e contamina il fiume, unica fonte gratuita di acqua potabile per tutta la piccola citta'. Lo stesso per gli oli esausti, che vengono semplicemente interrati. Arrivato in Italia, il legno alla diossina crea scandalo, ma i danni principali restano qui, dove le denunce possono costare care. Molto care.

La gente di Mindorou percepisce innanzitutto la discriminazione degli abitanti del luogo. Sta di fatto che quando hanno formato un comitato dei ventuno villaggi della zona, e hanno organizzato un blocco pacifico di fronte alla segheria, la risposta e' stata univoca. Dopo qualche giorno, secondo il capo villaggio, il comandante della gendarmeria ha fatto irruzione alle cinque del mattino con un camion di guardie e ha arrestato una dozzina di persone, tra cui il capo del villaggio. Dodici giorni di arresto senza motivo e senza processo per tutti, poi tre mesi di carcere per sei di loro con l'accusa di saccheggio ai danni dei beni della compagnia. La manifestazione pero' si teneva fuori dai cancelli, dove era ben difficile saccheggiare qualcosa, come ci confermera' poi un giornalista presente all'evento. La rappresaglia della compagnia, secondo la gente del posto, non si e' fermata qui: ha licenziato diversi dipendenti per sciopero non autorizzato, ha interrotto le forniture di corrente elettrica alla chefferie, ha smesso di cedere agli abitanti gli scarti di legname. L'altra faccia, quella africana, della responsabilita' sociale di una moderna impresa italiana.

La sera, viaggiando verso Yokadouma, scoppia un temporale, che trasforma la strada in un fiume di fango. I camion corrono a tutta velocita' come di giorno, viaggiando sempre al centro della carreggiata, e non si spostano ne' rallentano se una macchina arriva in senso inverso. Evitarli e' un'acrobazia. Ne sfioriamo quattro o cinque, ma arriviamo interi in citta'.

A Yokadouma arriviamo tardi. Passiamo una prima notte in una locanda fatiscente popolata da una ricca biodiversita': coraggiosi come giaguari, rapidi come gazzelle, intelligenti come scimpanze', enormi scarafaggi rossicci ci prendono d'assedio. A nulla serve la zanzariera rimboccata sul letto: vengono dai loro nidi dentro il materasso, saltano sul letto, ballano la rumba sulla nostra faccia, al tempo di musiche - o meglio grida di pseudo-funkie - che filtrano dalla strada, diffuse fino alle tre del mattino da gracchianti altoparlanti. Alle sei del mattino gli stessi altoparlanti trasmettono pie canzoni religiose, e gli scarafaggi, forse per mistico rispetto, battono ritirata. Ma ancora per qualche giorno continueranno a uscire fuori dal mio zaino.

giovedì 1 aprile 2004

Verso le Province dell'est

Batouri, 1 aprile 2004. Lasciamo Yaounde' la mattina verso le otto e mezza, dopo i preparativi necessari, e alcune rapide riunioni. Il cielo e' pieno di nuvole, ma per ora il tempo sembra reggere.
Lungo la strada, una meta' abbondante del traffico sono camion di tronchi, la maggior parte di quelli che incontriamo vengono dalle concessioni di Hazim e IngF, tra le piu' malfamate del paese. Ci fermiamo intorno a mezzogiorno per prendere un caffe' nella cittadina di Ayos. Dopo il ponte sul fiume finisce la strada asfaltata e inizia la rotta dell'incertezza che ci accompagnera' fino alla fine del viaggio.
La strada che porta a est non e' molto affidabile, i camion corrono a tutta velocita', carichi di tronchi enormi, marciando al centro della carreggiata. Queste strade sterrate, frequentate da gang organizzate di banditi-cacciatori professionali, dotati di armi da guerra, sono il percorso abituale dei camion carichi di tronchi che portano il legname destinato ai porti italiani, ai nostri mobili, ai nostri parquet. Qui un buon autista vuol dire tutto. Quando passa un camion in direzione contraria, sembra di assistere all'arrivo improvviso di un cataclisma. Appare prima la nube di polvere, poi si vede il camion che avanza a tutta velocita', sbuffando fumo rosso dai lati come una locomotiva impazzita, quindi all'improvviso, mentre l'auto sterza per evitare quella massa furiosa, una nuvola di polvere densa e rossa avvolge tutto. L'autista, per non pendere la rotta, punta l'indice sul parabrezza e ve lo tiene fisso fino a quando la nuvola di polvere non si dirada, e l'auto, miracolosamente, e' ancora in carreggiata.

Non e' cosa rara che uno di questi camion travolga le persone che comunemente camminano sul bordo della strada, per andare da un villaggio all'altro, per andare ai propri campi. Gli autisti sono pagati a cottimo, e fanno di tutto per abbreviare i tempi, saltando turni di riposo, andando a velocita' incontrollabile, anche la notte. E' facile finire fuori strada, col carico di tronchi, in prossimita' di villaggi, riducendo in poltiglia le povere capanne di fango, con la gente che vi e' dentro. Lungo la strada le carcasse di diversi camion che arrugginiscono lentamente al sole raccontano solo alcune delle tragedie stradali del mercato dei tronchi.

Passiamo le citta' di Abong Mbang e Bertoua, e ci fermiamo a Batouri, centro di smistamento di tronchi, di traffico di oro, nonche' rinomato per la pregiata fabbricazione di diamanti falsi. In un ristorante che e' piuttosto un cubicolo mangiamo cous-cous, una massa compatta di glutine di riso senza sale, da cui si staccano dei pezzetti che dopo aver debitamente appallottolato con la mano, vengono intinti in una salsa rossa e saporita. Guardo la matrona che gestisce il ristorante e rimango incantato dai colori del vestito che indossa, e mi domando come faccia a sopravvivere in quel calore con tre o quattro strati di vestiti, ma a lei sembra normale. C'e' anche un ristorante piu' di lusso, poco piu' in la, che offre selvaggina. No, non hanno elefante al momento, e anche il varano e' terminato. Ma basta aspettare qualche giorno.