mercoledì 18 aprile 2001

Terre di frontiera



La chiamano "la strada della morte". E' una strada sterrata e fangosa che si arrampica da Cobija, Bolivia, a Epitaciolandia, Brasile. Qui, tra sparatorie, faide e raid della polizia, passa una parte consistente della coca destinata al mercato brasiliano e agli Stati Uniti. Si parla di sei o settemila tonnellate ogni mese, che passano il confine e si perdono tra le baracche che costeggiano la strada di argilla.

Ma la Bolivia si raggiunge anche per altre vie, senza passare per il posti di frontiera o strade traverse: basta pagare qualche spicciolo a un traghettatore che ti fa attraversare in canoa il fiume Acre. Sono appena pochi metri, ma cambia il paesaggio, cambiano i volti. Scompaiono i coloni venuti dal nord est brasiliano a farsi consumare dalle malattie amazzoniche e scompaiono anche i baracconi cadenti di Brasileia, per fare posto ai visi allargati degli indios boliviani, in una citta' dall'antico fascino coloniale.
Case basse e larghe dai colori tenui, sovrastate da palme e banani che disegnano un contrasto di altri tempi. Signorili anziane passeggiano proteggendosi dal sole con un ombrello aperto, senza degnare di uno sguardo le statue, che ad ogni angolo presentano un eroe nazionale. Ovviamente militare.

Nella chiesa barocca, fresca e accogliente sotto un sole spietato, appare un opera di imprevista bellezza. Una pala d'altare dedicata al "Cristo seringueiro", un crocefisso con le mani grosse e con i piedi sformati dalla foresta. La trave a cui e' inchiodato e' incisa come per la raccolta del lattice di gomma. Lo sguardo sofferente e i colori forti impressi da questo sconosciuto pittore popolare, ricordano la forza e la disperazione dei crocefissi in cui Gruenewald raccontava al mondo la Guerra dei contadini tedeschi e le atrocita' commesse dai loro signori feudali.

La guerra dei seringueiros ancora non e' finita. Lo testimonia la tomba di Chico Mendez a pochi chilometri da qui, di nuovo sul lato brasiliano, nel piccolo cimitero di Xapuri'. Una foto, e un piccolo parallelepipedo di maiolica, circondato di piante rampicanti e dall'acqua dell'ultima pioggia, che regala alle tombe azzurri spicchi di cielo, tra i ciuffi d'erba e fiori di campo. A poche centinaia di metri, la vera eredita' lasciata alla sua gente: l'associazione e la cooperativa di produzione. E a qualche chilometro l'eredita' lasciata al mondo: la foresta amazzonica.



La comunita' che Chico Mendez ha lasciato dietro di se' ha fatto passi da gigante. Attorno ai seringueros e ai piccoli produttori agricoli, si sono create cooperative a Xapuri', a Brasileia ed Epitaciolandia. Si occupano della lavorazione della gomma, della noce brasiliana e fanno mobili in legno certificato FSC. In questo modo creano lavoro in loco, e ottengono prezzi piu' equi perche' scavalcano gli intermediari. Ma i tempi dei pistoleros non sono finiti, e Chico Mendez non e' stato l'ultimo a cadere. Ogni volta che si approssimano le elezioni, e le vecchie mafie si riorganizzano per riprendere in mano il governo dell'Acre, tornano le minacce di morte. Parole che escono fuori per caso, con semplicita', parlando fra familiari a una festa, tra piatti di pesce alla griglia e la forte birra boliviana, come se nessuno le prendesse sul serio. Perche' e' alla vita che bisogna pensare, ma al chiuso della propria casa, ognuno ha gia' fatto i conti con la propria famiglia...

Sulla via del ritorno verso Rio Branco, una lunga cortina di fumo si leva al cielo, dal confine della foresta. Un altro pezzo di Amazzonia che se ne va per sempre, per allargare i pascoli di qualche latifondista. E non lontano sfilano per chilometri lungo la strada, le proprieta' del fazendero che ordino' l'assassinio di Chico Mendez. Sono ancora li, a dirci che ancora non abbiamo passato il confine. Quello vero.

Jaçy Parana'


Il benvenuto in citta' lo danno gli avvoltoi, appollaiati in fila sui pali ad ali aperte, come macabri trofei viventi. Jaçy Parana', se di citta' si puo' parlare: poche case e baracche con facciata in legno e il patio, allungate sulla strada tra Porto Velho e Rio Branco. Una strada che sembra correre verso il nulla in due direzioni opposte, tagliando in due la terra come con un colpo di righello.

In realta' ha tagliato molto di piu', la strada: ai suoi bordi, per chilometri la foresta e' scomparsa, sostituita da latifondo a pascoli. Dietro il filo spinato ancora se ne vede lo scheletro: tronchi bruciati, dai rami contorti, come gigantesche mani carbonizzate, nell'atto disperato di afferrare il cielo.

A Jaçy Parana' abitano contadini, pescatori e seringueiros, i raccoglitori tradizionali di gomma. Un tempo era un porto importante, ci passava la ferrovia, c'era una stazione. Al tempo degli imperi della gomma. Ora la stazione e' un rudere spaccato in due, unico monumento della citta' che fu. Proprio sopra la vecchia strada ferrata, come un treno stanziale, e' nata un'altra fila di casette e baracche di legno.

Aspetto per interminabili ore calde un appuntamento che si dilata lungo i tempi espansi di questa terra fuori dalla storia. Ho un contatto di seconda mano col presidente dell'associazione dei seringueiros, perdutosi a Porto Velho, appresso a chissa' quali trattative. Sopraffatto dal caldo mi siedo sotto un albero, diventando l'attrazione esotica dei bambini e dei ragazzi del posto, che entusiasti dall'insolita presenza di un gringo, si lanciano in prodezze geografiche: sara' che la Cina e' la capitale del Giappone? E tu, in quale quartiere dell'Italia abiti?

Poi anche i bambini se ne vanno, chiamati da madri poco piu' grandi di loro. Stanco di guardare i polli, passo il pomeriggio camminando per strade fangose che salgono lungo le colline, tra campi polverosi e baracche, seguendo le tracce di camion carichi di tronchi che deviano stranamente dalla strada principale. Per avere conferma di quel che supponevo: una miriade di piccole segherie taglia e trasforma direttamente i tronchi in assi, sottraendoli cosi' ai controlli. In un paese cosi' vasto, l'attivita' di taglio illegale della foresta sfugge ad ogni controllo. L'unico metodo per fare verifiche e' controllare i permessi di trasporto dei tronchi, che devono riportare i dati relativi al luogo e alle condizioni del prelievo. Ma basta segare i tronchi nella regione, e il controllo diventa impossibile: le assi di legno non sono tronchi, sono ormai una merce come qualsiasi altra.



In questa regione, lontana dalla citta', dal turismo, dalla produzione, ma vicina alla frontiera boliviana, l'economia sembra seguire strade proprie. Strade lastricate dalla diffidenza. Ovunque vai ti chiedono chi sei e cosa vai cercando. Oppure ti guardano fisso, con quello sguardo muto e pesante, che ti fa capire di essere nel posto sbagliato.

Dietro la sottile linea delle case, sopra la foresta, piccoli aerei militari volteggiano in cerchi ripetuti gettandosi in picchiata fin quasi alle cime degli alberi: e' la quotidiana guerra della coca.

domenica 15 aprile 2001

Nemica foresta.


La pioggia cade ormai da ore. La piccola barca a motore fende l'acqua del fiume, affrontando le raffiche di vento zuppo. Non parliamo. Intorno c'e' solo il frastuono del motore, l'acqua e il vento che penetrano fino alle ossa, e l'enorme foresta che scorre scura tra il grigio del cielo e il grigio del fiume.

Appena percepibile nel suo nuotare elegante, un'anaconda attraversa il fiume. Qui la chiamano sucuri, parola dal suono terribile. Tornano alla mente storie di seringueiros, raccontate alla luce tremolante di una candela, che ingigantisce le ombre lungo il tetto di paglia. Racconti di orribili mostri acquatici che ti aspettano dietro ogni ansa del fiume, per ingoiarti con tutta la canoa. Ma l'anaconda ha i fatti suoi a cui pensare. La pioggia invece, con le sue raffiche, toglie il coraggio, la forza, la voglia di andare avanti.

Cerco di immaginarmi di essere foresta, per accogliere questa pioggia come una linfa di vita, cerco di pensare che il la visiera del mio berretto, da cui zampilla un ricco rivolo di acqua, sia una roccia coperta di muschio. Che la maglietta che mi sventola addosso schizzando, sia la fronda di un albero che ondeggia al vento. Ma non funziona: sono fradicio e ho freddo, la foresta mi e' estranea, cosi' come io sono estraneo a lei. E vorrei soltanto un letto caldo.

La foresta ha vinto la mia battaglia, ha fiaccato in poche ore tutta la mia volonta', ha riportato al suo posto questo piccolo moscerino invasore.
La sua ombra oltre il fiume incombe sempre piu' nera. Vedo i pinnacoli che si ergono fino al cielo attorcigliandosi per poi ricadere in cascate di fronde e liane, fin nel profondo intrigo buio di umida decomposizione, di malattie bizzarre e di tempi dilatati dal lento e precipitoso ritmo del regno vegetale.

Ed e' in questa dimensione estraniata, che non e' piu' del mio mondo, che la foresta mi accoglie. Con gentilezza allevia il peso che mi opprime le reni, e mi conduce per mano nel Paese senza domande e senza risposte, dove l'aria spessa squaglia sogni e ragioni.

sabato 14 aprile 2001

Seringua



La riserva estrattiva di Jaçy Parana' copre novantamila ettari di foresta. Le riserve estrattive sono aree esclusive affidate ai raccoglitori di gomma e alle comunita' che abitano lungo il fiume. Sono il risultato della lotta dei seringueiros, i raccoglitori di gomma, contro i signori del legno.
Quando taglialegna e latifondisti, assediavano le foreste con le motoseghe e con il fuoco, chiamati dal governo ansioso di creare "sviluppo" nell'Amazzonia profonda, i seringueiros raccolsero attorno a se i "popoli della foresta" con un'alleanza che andava dalle nazioni indigene alle comunita' di pescatori. Chi viveva nella foresta e della foresta, sentiva di doversi unire in gruppo per proteggerla dall'assalto. "Empate", si chiamava, quando una cinquantina di uomini e donne si mettevano davanti agli alberi per proteggerli dalle motoseghe. Diversi leader sindacali, diversi seringueiros morirono sotto i colpi dei pistoleros mandati dai latifondisti. Ma oggi le riserve estrattive coprono un dieci percento dell'intera foresta amazzonica brasiliana, e assieme a un altro venti percento di riserve indigene rappresentano il centro di qualsiasi strategia di protezione della foresta.

Una protezione ancora troppo fragile, erosa dalla altrettanto fragile economia della foresta. La gomma rende una miseria: 80 centesimi di real al chilo. Il mercato per altri prodotti forestali e' ancora debole: l'olio di copaiba, il dolce ed energetico frutto di açai, la noce brasiliana, di incredibile valore nutrizionale, sono prodotti che potrebbero assicurare vita alla foresta e alle genti che la abitano, e potrebbero impedire che quelle stessi genti, assediate dalla fame, si trasformino, allargando poco a poco gli orticelli di manioca e di riso.

Liuz Vidal dirige dell'associazione che gestisce la riserva, e fa un po' di tutto: tiene i contatti, cerca acquirenti, porta i pochi rifornimenti ai seringueiros sparsi lungo il fiume: una decina di munizioni a testa, strumenti di lavoro, del sale e carne secca. Carica tutto nella canoa a motore per il giro consueto e non dimentica di prendere la sua amaca, il machete e il fucile. E' un viaggio di ore, attraverso la spessa pioggia tropicale. La prima capanna dei seringueiros si intravede a meta' giornata, in una collinetta dietro la riva. Un uomo e una donna ci vengono incontro. Sono giovani, ma i loro corpi paiono curvati da un peso invisibile, i volti scavati. Un giocattolo di legno buttato dietro la capanna rivela la presenza silenziosa di un bambino.
L'uomo conta le cartucce, la donna ci porta un caffe' caldo e dolce. Poche parole essenziali, poi il viaggio riprende. Di nuovo ore di fiume, di pioggia, di rumoroso silenzio.
Una nuova capanna, piu' grande: vi abitano in quattro. Le facce sono sempre scavate, ma gli sguardi allegri. Una delle due donne e' giovanissima, forse sedici anni. Bellissima, dall'espressione ingenua e scanzonata su un bellissimo corpo appena addolcito dalle curve della maternita'. Il quinto ospite della capanna nascera' a luglio.
Ci offrono pesce di fiume cotto in brodo di limone, e dolce di zucca e manscavo, mentre si parla di dove trovare açai, di quanto olio da un buon albero di copaiba, di qual'e' l'anno giusto per raccogliere la noce brasiliana. Strane riunioni di economia forestale, lezione tenute da agronomi scalzi e senza camicia.
Quando ci accingiamo a ripartire, un problema al motore ci ferma. Siamo quasi a una giornata di navigazione dal paese. A remi, almeno quattro giorni.



Gli agronomi si trasformano in meccanici e rovistano nella ferraglia, mentre un esercito di insetti ci cala addosso, attratto dall'aria umida ed elettrica della pioggia in arrivo e dal tramonto ormai prossimo. Enormi farfalle screziate, vespe gialle e grosse, calabroni neri, libellule azzurre e rosse, zanzare di tutte le dimensioni e fattezze, tutti a ronzare dentro una spessa nuvola di microscopici moscerini succhiasangue che ci avvolge senza pieta', e che mi lasceranno due giorni gonfio e febbricitante. Quando il motore riprende a scoppiettare rauco, mando un ringraziamento a tutti gli dei di cui ho mai sentito parlare.

L'ultima sosta e' presso un sito abbandonato. La capanna e' trasandata ma qualcuno vi abita. Qualcuno che e' via da giorni: un gattino di un mese reclama la sua razione, e saltellando di speranza ci segue fino alla barca dove trova anche lui un po' di riso.

martedì 10 aprile 2001

Porto Velho



Vie squadrate e case basse. Citta' di polvere e di merci povere esposte con insistenza ripetitiva, sempre uguali. Che sia il centro del traffico della coca si vede dalle insegne, ben dipinte a vernice sui muri di legno, con cui gli avvocati vantano la loro specializzazione in cause per narcotraffico.

La citta' sembra non curarsene, con la stessa gentilezza un po' indifferente e un po' fatalista con cui guarda i pochi stranieri di passaggio. A sera, quando cala il caldo che avvampa gli occhi, il sole tramonta sul Rio Madeira facendo esplodere l'immenso cielo in alte vampate di fuoco. Poi, dopo aver passato in rassegna tutte le tonalita' del rosso, del viola, dell'azzurro e del grigio, la luce alla fine se ne va. Resta solo il puntino luminoso di una barca che si allontana silenziosa, contro la sagoma nera della foresta, oltre il fiume.

Dietro il porto riposa in pace la stazione. La ferrovia doveva essere la vittoria della civilta' sulla foresta selvaggia. E, per inciso, via di mercato per i signori della gomma boliviana.
Come al solito partirono per primi gli inglesi, evangelizzatori ed inventori dell'imperialismo ferroviario. Ma due anni di febbri della foresta bastarono a sgominare l'impresa. Ci riuscirono quaranta anni piu' tardi gli americani, al prezzo di centinaia di vite cubane e giamaicane.
Poi gli inglesi riempirono di piantagioni di gomma il Sud-est asiatico e gli imperi amazzonici crollarono in pochi anni. La ferrovia, la grande civilizzatrice, e' morta di inedia, e le antiche e potenti locomotive troneggiano coperte di liane, con ciuffi di verdi canne che sbuffano dalle ciminiere.
L'intera stazione, in solido liberty industriale, e' ora una serra senza vetri, vendicativo monumento alla foresta.

Appena calano le tenebre la citta' si trasforma. Il rospo diventa principe. O forse viceversa. Scompaiono le facce stanche, le merci povere, le vecchie Volkswagen polverose. Perfino la polvere sembra scomparire, nel luccichio dei fuoristrada di lusso, delle macchine lunghe, dei taxi miracolosamente moltiplicatisi. Il centro si riempie di gente per bene, forse un po' troppa per una citta' che importa da Sao Paulo tutto quello che consuma.
Non sono i trafficanti dai capelli impomatati, che bevono sempre il whisky sbagliato. E' un ceto medio pulito, spendaccione e spensierato. Forse anche i film dovrebbero cambiare cliche'.
Sulla parete bianca appare ironica una grande scritta a caratteri cubitali blu e rossi: "Droga Center". Ma qui, vuol dire soltanto farmacia.

Del selvaggio west e' rimasto solo il nome dell'albergo dove mi sono rifugiato: Hotel Sonora. Qui godo di una cella di un metro per due, trenta centimetri di finestra, lampadina a vista e materasso senza lenzuola. Sudando come una fontana e combattendo con le zanzare, mi godo quel che rimane dell'antica citta' selvaggia.

sabato 7 aprile 2001

Carga Pesada



Un campo arido, invaso dalle canne, tra due latifondi recintati.
Una tettoia, alcune capanne, una bandiera: i contadini senza terra hanno piantato un nuovo campo.
Una cinquantina tra uomini e donne, capelli arruffati dalla polvere, sandali di gomma e bermuda stinti. Volti resi scuri dal sole, segnati dalle malattie e dalla fatica di vivere. Ma il sorriso e' aperto e sincero, e lo sguardo ospitale.

Il movimento dei Sem Terra e' nato una decina di anni fa, da una costola della pastorale della Terra. La riforma agraria era rimasta sulla carta, e il Brasile ha tuttora il record mondiale del latifondo: su tre milioni di fondi registrati, la oltre la meta' della terra si concentra nel tre percento dei proprietari, alcune delle quali sono piu' vaste della Svizzera, molte delle quali si basano su documenti contraffatti. E quasi tutte sono improduttive.
I Sem Terra hanno cominciato ad occupare latifondi abbandonati, chiedendone l'espropriazione, come prevede la mai applicata riforma agraria.
Come prima risposta hanno avuto il piombo. Pistoleros dei latifondisti o polizia militare hanno segnato il paese di eccidi, tra Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Parana',. Anche la Rondonia ha pagato il suo tributo di sangue quando nel 1996 a Corumbaria decine di occupanti furono uccisi a colpi di arma da fuoco.

Chiusa l'epoca dei massacri si e' passati all'intimidazione giudiziaria, all'arresto dei leader del movimento, con pretesti piu' o meno credibili. Ma i Sem Terra si sono moltiplicati, strani evangelisti della terra continuano a battere citta' e villaggi predicando il diritto a un campo, raccogliendo nuove leve di diseredati in cerca di una vita da costruirsi.

E' un campo, e' provvisorio. Contano di insediare duemila famiglie in un latifondo a cento chilometri da qui. Cercano le parole con sforzo, non sono abituati a raccontarsi. Eppure sotto le frasi incerte, dietro l'aria impacciata, si nasconde gente che tratta col governatore, con i funzionari dell'amministrazione, analfabeti che negoziano mappe catastali alla mano, per ottenere l'assegnazione di terre, investimenti e infrastrutture. Per ora si tratta solo di promesse tracciate su carta, ma loro restano li e non si muovono, fino a quando la carta non si trasformera' in una opportunita' di vita.

Carga Pesada si chiama l'accampamento, carico pesante. Perche' la vita qui non e' facile. Una trentina di capanne di foglie di palma, coperte di plastica nera, un grande tavolo comune, una cucina da campo montata su un rudimentale forno a legna. Nella grande pentola cuociono riso e manioca. L'elettricita' non esiste, e neppure l'acqua potabile. Da un pozzo scavato nel terreno affiora un po' di acqua fangosa. Il bucato si fa al ruscello, qualche centinaio di metri oltre la strada.

Il caldo e' opprimente. Il sole sembra bruciare la terra e le speranze. Ma le mani continuano a intrecciare con rapida precisione foglie di palma per costruire capanne. Il riso bolle nella grande pentola. E fino a quando ci sara' del riso, si va avanti.

Forse non tutti: alla stazione dei pullman (una baracca di legno e un baretto al lato della lunga strada) un uomo piu' anziano aspetta l'autobus. Il volto bruciato, i capelli ormai bianchi, lo sguardo appesantito. Ha lasciato l'accampamento dei Sem Terra, se ne torna a casa a Porto Velho. Perche' qui si batte, si batte, ma non si conclude niente, e ogni volta che si ottiene qualcosa, serve soltanto a complicare di piu' le cose: carte, registri, ma niente che risolva. Povero popolo brasiliano! Saluta e prende il pullman, che lo riporta verso la rassegnazione quotidiana, il sapore piu' autentico di questo paese e della sua sconfinata provincia.

giovedì 5 aprile 2001

Amazonas



Sembra incredibile che un quinto di tutta l'acqua dolce del mondo si trovi racchiusa in Amazzonia. Sembra incredibile fino a quando non si vede con i propri occhi l'estensione imponente del fiume-mare, il Rio delle Amazzoni, dove fiumi diversi scorrono fianco a fianco nello stesso letto, senza mescolare le proprie acque. La corrente e' appena percettibile eppure l'enormita' di quella massa d'acqua in movimento e' spaventosa.

L'acqua disegna l'intero paesaggio, le estensioni di foreste alluvionate dove la barchetta plana di ramo in ramo come uno strano uccello, l'orizzonte tagliato dalle strisce scure di temporali improvvisi e dalle immense colonne di vapore che si levano da foreste lontane a creare nuove nubi, un ammassarsi in strati infiniti, uno dopo l'altro, di un cielo che sembra non voler finire.

Un'acqua nera come la notte, che ha strappato alle foreste sommerse gli umori piu' segreti. Lungo l'acqua, dentro l'acqua, intorno all'acqua cresce la foresta. L'intrigo di tronchi e steli glabri che si perdono verso il cielo verde scuro, sotto il quale e' sera dodici ore al giorno. E poi sara' notte. Un'immensa estensione di alberi vivi e morti, rumori e richiami. Tutta diversa e tutta uguale: ogni angolo assomiglia agli altri, e diventa diverso da se stesso appena un istante piu' tardi. Un immenso caleidoscopio incantato, in cui solo i popoli della foresta sanno muovere piu' di un passo senza perdersi irrimediabilmente, fino a lasciarsi cadere nella profondita' della notte.

Una notte densa, fatta del rumoroso silenzio di mille animali e piante che si muovono a passi felpati sulle foglie fosforescenti, si incontrano, si contorcono, si inseguono, si stringono. Una notte che e' la piu' fonda e la piu' viva di tutte le notti. E' facile immaginare che per gli uomini europei, il caos vivo dell'Amazzonia fosse un immenso niente. Al centro di questo niente, sorge Manaus, citta' di confine. Citta' di avventurieri e marinai, trafficanti e prostitute.
E come in tutte le frontiere perdute, brulicanti di uomini perduti, a Manaus si cristallizzano come impure gemme i sogni smarriti degli orfani di una Europa troppo lontana.

Una di queste gemme contraffatte e' il Teatro Amazonas, che sfoggia il lusso sproporzionato dell'epoca dei baroni della gomma: cristalli, legni e marmi portati dall'Europa fino a questo finis terrae, per celebrare con sfarzo l'inarrestabile avanzata della cultura e del progresso sulle forze oscure della foresta. Ma la foresta si e' difesa, e la febbre gialla ha sterminato i raccoglitori, il tempo che bastava perche' fosse inventata la gomma artificiale. Imperturbabili, i signori della gomma hanno spostato altrove le loro fortune, lasciando la foresta amazzonica quasi intatta e Manaus in fastosa decadenza.

Piu' lontano ecco il Palazzo Rio Negro: edificio candidamente neoclassico, voluto da un barone della gomma prontamente ritornato alla terra natale, in Germania, e trasformato in palazzo dal governatore dell'Amazzonia. In una saletta foderata di legni pregiati, si tiene un concerto di musica da camera, e le note dei Brademburghesi si diffondono oltre i vetri di un irrealistico tramonto equatoriale. Al lato, un cartello in bella calligrafia, riporta in ordine cronologico i nomi di governatori militari, costituzionali o rivoluzionari, di dittatori e commissari federali che si sono succeduti governando l'Amazzonia ciascuno per qualche settimana, alcuni per non piu' di due giorni. L'arrivo della sera e' annunciato da un'Ave Maria barocca, nella voce cristallina di una ragazza dai dolci occhi di india.
Una voce triste, che evoca esistenze trasparenti e perfezioni astratte, mentre qualche centinaio di metri piu' in la', le spazzine di Manaus, dai cappelli dalle larghe falde, rimestano tra i fetori densi del mercato, mentre gli scaricatori del porto bevono birra gelata e ballano canzoni contadine cantate da orribili ceffi armati di pianola elettrica. Da un buco nel selciato, un topo di fogna sporge il suo muso, attratto dall'allegra festicciola, e scambia qualche occhiata furtiva con gli sguardi gentili e giocosi di questo strano popolo perduto al confine del nulla.

Lungo il fiume scorrono buffi battelli tondeggianti e piccole canoe. Vanno lentamente verso il nero scuro della notte senza luna, la notte di tutte le foreste del mondo.